Per fare tutto servono i semi

Elementi essenziali della vita, i semi devono essere considerati un bene comune, primo anello della catena alimentare

Tutto nasce da un seme, sono il primo anello della catena alimentare. Si accompagna alla primavera la stagione della semina: il terreno viene preparato con cura per accogliere il simbolo della vita che ci darà dei frutti. La verdura, la frutta, il pane, la pasta e persino la carne (visto che gli animali si nutrono di vegetali) nascono da un seme. “Per fare un tavolo ci vuole un seme”, cantava Sergio Endrigo per raccontare come i semi sono alla base di tutto, e per questo non possono essere proprietà esclusiva di pochi. Anzi per molte realtà, tra queste Slow Food, devono essere considerati un bene comune, quali elementi essenziali della vita. Negli anni Settanta c’erano oltre 7.000 aziende impegnate nel comparto sementiero. Oggi 4 multinazionali controllano il 63% del mercato dei semi.

Se sono ibridi gli agricoltori non li possono riprodurre

Ricordo ancora le ruvide mani di mio nonno che deponeva i semi che con cura aveva preparato in un sacchetto di iuta e mi diceva “questo è il nostro capitale”. Sì, perché dopo pochi mesi avrebbero dato frutto, una parte consumato e un’altra con cura selezionata per diventare seme. Mio nonno sapeva che doveva saper scegliere le piante (migliori) da cui raccogliere i frutti (migliori) per prelevare i semi da conservare per l’anno futuro. Una pratica usuale tra le comunità contadine per 10.000 anni. Ma un bel giorno la ricerca scientifica delle multinazionali agricole ci ha consegnato i semi ibridi (etichettati come F1) che garantiscono elevate produzioni con caratteristiche idonee al trasporto e alla conservazione. Ma gli ibridi impediscono agli agricoltori di riprodurre il seme e ciò finisce per concretizzarsi in un asservimento degli agricoltori al potere di grandi gruppi in grado di decidere cosa produrre. Ogni anno l’agricoltore deve comprare il seme e le piantine. Non c’è stato solo un cambiamento dal punto di vista genetico, ma anche politico e sociale. La sovranità degli agricoltori è perduta, con il diffondere degli ibridi non si mettono più da parte i semi per l’anno successivo e ci si affida solo alle innovazioni delle multinazionali del settore.

Lo stesso seme (industriale) viene piantato in tutto il mondo

Con l’affermarsi delle sementi industriali il numero delle varietà coltivate si riduce a poche tipologie, create in laboratorio che si impongono a ogni latitudine. Accade così che lo stesso identico seme è piantato in diverse parti del mondo, senza nessuna correlazione con il territorio. L’agricoltura industriale, infatti, ha bisogno di uniformità e alta produttività. Così, delle 80.000 specie commestibili utilizzabili a scopo alimentare oggi se ne coltivano solo 150 di cui 8 sono commercializzate in tutto il mondo. Secondo la FAO il 75% delle varietà vegetali è ormai perso irrimediabilmente. Ma non solo: le stesse compagnie che detengono il controllo delle sementi (sia ibride sia geneticamente modificate) sono leader nella produzione di diserbanti e pesticidi. Esiste un forte e inquietante intreccio fra chi produce semi e chi produce erbicidi e insetticidi.

Il futuro del nostro cibo dipende sempre da un seme

Viviamo in un momento storico in cui si parla di cibo con una frequenza mai vista prima. Tutti sappiamo discettare di chef, di ricette. E tutti, con la stessa facilità, ci dimentichiamo che cos’è che rende possibile tutto questo, ovvero l’agricoltura e, indissolubilmente, le sementi. Il futuro del nostro cibo nasce e nascerà sempre da un seme. Come possiamo permettere che in alcune zone del mondo le lobby delle industrie siano riuscite a vietare gli scambi informali tra contadini, un meccanismo alla base delle civiltà rurali lungo tutta la storia dell’agricoltura? Succede in Europa come in Africa. Le varietà autoctone o locali selezionate dai contadini, di anno in anno si sono adattate sempre meglio al suolo e al clima dei loro territori, sono più rustiche e più resistenti agli stress ambientali. E sono strettamente connesse alla cultura delle comunità locali. Fa piacere vedere giovani che si avvicinano nuovamente all’agricoltura con uno spirito diverso e stanno ritornando a fare i semi introducendo quella biodiversità che nei negozi di sementi si era persa.

Sovranità alimentare e biodiversità da proteggere

I semi sono un nodo cruciale per la giustizia sociale legata alla sovranità alimentare, e, in un mondo sempre più esposto a rischi climatici e biologici, la biodiversità è il più potente strumento di difesa per la sopravvivenza dell’umanità. Alla luce di questo acquisiscono ancora più valore quelle esperienze di banche dei semi autoctoni, di scambi informali tra contadini, di seed-savers che stanno nascendo tra mille difficoltà in tutto il mondo. Rappresentano esempi di resistenza e di cambiamento, e ci indicano la rotta da seguire. I semi sono il futuro nostro, dei nostri agricoltori, della nostra gastronomia, della nostra identità e della nostra cultura. Scopriamoli, difendiamoli, usiamoli, scambiamoli e conosciamoli. Solo così potremo riappropriarci di ciò che è e deve rimanere patrimonio di tutti.

Dati per uno specchietto

Oggi il mercato delle sementi è concentrato in pochissime mani. Nell’Unione Europea, le prime cinque aziende del settore controllano il 75% delle sementi di mais e il 95% dei semi di ortaggi. A livello globale, il dato è ancora più impressionante, direi spaventoso: le prime tre aziende detengono il 53% del mercato, le prime dieci arrivano al 75%.

Di Valter Musso

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