Aborto: le donne chiedono una gestione più umana

da | 15 Ott, 2022 | Lifestyle, Persone, Salute e Benessere, Soldi e Diritti

Scarsa informazione sulle pratiche e gestione frettolosa: l’aborto spontaneo per molte donne è ancora un episodio doloroso e affrontato in solitudine 

In un’epoca in cui il diritto di IGV è sempre più messo in discussione a causa della mancanza di strutture adeguate e dal personale medico obiettore, in generale chi lavora nei reparti che hanno a che fare con l’interruzione di gravidanza, sia fisiologica sia volontaria, devono agire in tempi rapidi.  

Chi si ritrova ad a dover affrontare un aborto spontaneo, episodio indelebile che segna la vita, rischia di dover aggiungere a questo evento spiacevole un ulteriore trauma: un trattamento poco empatico, spesso senza alcun supporto psicologico ed emotivo, e il fatto di non riconoscere l’evento per ciò che realmente è: un vero e proprio lutto causato dalla perdita di una vita tanto cercata.

Un cuoricino che non batte più

“Erano i primi giorni dell’anno quando mi accorgo di un crampetto che sentivo sopra l’ovaio sinistro diverso dal solito ciclo. Era lui, o lei, che finalmente bussava alla porta della vita” racconta Raffaella, mamma di due bambini.

“Sentire una vita dentro di sé è sempre una grande emozione, non solo la prima volta che accade. Le cose però non sono andate come speravo. Ero al terzo mese quando, durante l’ecografia, la ginecologa mi dice che “il bambino si è fermato”. Il cuoricino non batte più.

Sento ancora quella frase che mi rimbomba in testa e da quel momento è stato come essere travolta da un vortice. Le parole di conforto non servivano. Seppur piccolo, per me era già la mia bambina, o bambino, che aveva smesso di vivere. Lo avevo già immaginato, in giro per casa: lo spazio che gli avremmo creato, le cosine usate dal primo figlio che avrei rimesso a nuovo. Eppure la parte più spiacevole e dolorosa di questa esperienza doveva ancora arrivare”.

Una pillola presa di fretta

Ad oggi, coloro a cui viene diagnosticata la morte del feto nel grembo materno viene solitamente agevolata l’espulsione attraverso un intervento chirurgico (raschiamento) oppure viene praticato l’aborto farmacologico, attraverso la somministrazione della pillola RU846

“Due giorni dopo mi sono ritrovata al Day Surgery dell’ospedale ginecologico della mia città per l’assunzione della pillola RU846.

Una scelta, quasi obbligata, presa in modo poco consapevole, travolta dagli eventi. Avevo seguito il suggerimento della dottoressa: ‘E’ meglio dell’aborto chirurgico – mi aveva detto – poi se cambi idea puoi chiedere di ricorrere al raschiamento. Ero stordita dall’accaduto e ho seguito i suoi consigli senza pensarci troppo, oggi posso dire in balia della disinformazione. 

Ma quando è iniziata la procedura ho avuto l’impressione di essere entrata in una ‘fabbrica’ dell’aborto. Una totale mancanza di tatto ed empatia da parte del personale, trattata in modo frettoloso e decisamente brusco. Fabbrica appunto, perché è come se maneggiassero oggetti e non persone. Non una parola di conforto, ma solo burocrazia.

Ero arrivata in lacrime, e mi sentivo in imbarazzo, credevo che la mia fosse una reazione esagerata.  Eppure mi sentivo così male. Poi ho visto altre donne, come me, con gli occhi lucidi, e addirittura una con una pancia già molto ben visibile”. 

A Raffaella viene prescritta la pillola da prendere, viene detto di tornare a casa e rifarsi viva dopo due giorni per assumere le altre due pillole e attendere l’espulsione del feto. 

“Arrivo alle 9 di mattina, con qualche minuto di ritardo perché dovevo accompagnare il bimbo a scuola. Avevo ancora la giacca addosso quando un’infermiera, nel corridoio, mi si avvicina e mi mette direttamente in bocca le pastiglie per recuperare il ritardo, mi comunica il numero del mio letto e mi dice di attendere lì, in attesa delle altre pastiglie”.

Come un uccellino caduto dal nido

Raffaella è ignara di ciò che le sta per accadere, di come avrebbe reagito il suo corpo dopo l’assunzione delle pillole. 

“Nessuno me lo aveva spiegato. Dopo aver assunto le ultime due pastiglie, ho sentito dal corridoio una donna chiamare il personale e dicendo di avere molto male al ventre. Le hanno risposto di andare in bagno, da sola, e di spingere. 

In quel momento ho iniziato ad avere paura: non mi sentivo pronta ad affrontare quel piccolo e doloroso travaglio da sola. Ma eravamo tutte sole, perché compagni, mariti o altri familiari non potevano entrare. 

Non ho avuto il tempo di elaborare la mia paura quando ho iniziato a sentire le contrazioni, che diventavano sempre più forti, fino a quando ho sentito un colpetto dentro di me, come se, laddove immaginavo il mio bimbo ancora attaccato, si fosse rotto un elastico. 

Cercavo di respirare profondamente quando è entrata un’infermiera dicendomi di svuotare la vescica per fare un’ecografia di controllo. 

In bagno mi attendeva una situazione poco rassicurante: accanto al gabinetto c’erano macchie di sangue, e la donna che avevo sentito lamentarsi era a carponi, sul pavimento, e si contorceva dal dolore. Sembrava di vivere un incubo. 

Io continuavo a sanguinare copiosamente e, mentre mi accingevo a svuotare la vescica come mi avevano chiesto, il mio bambino è uscito dal mio corpo nel suo sacco di colore bordeaux-viola traslucido. 

L’ho preso in mano, tra l’indice e il pollice, e sono rimasta ferma, a fissarlo, incredula che quello che avevo tra le mani fosse davvero lui.

Mi ricordava un’esperienza lontana in cui, da piccola, avevo raccolto un uccellino morto, ancora senza piume, caduto dal nido.

Mi sono ricordata che mi aspettavano per l’ecografia. Non sapevo che fare, non potevo uscire dal bagno con quel sacchetto pieno di sangue tra le mani, rischiando di apparire patetica o impressionando la povera donna fuori che ancora non aveva raggiunto il momento dell’espulsione. 

Non provavo più alcuna emozione e ho fatto ciò che ancora oggi non riesco ad accettare: l’ho gettato nel gabinetto e ho tirato l’acqua.

Subito dopo, durante l’ecografia, la dottoressa ha confermato: la gravidanza è stata espulsa. Può tornare a casa”.

Condividere per superare il dolore

Raffaella è confusa, sente un pugno nello stomaco e dolori nel ventre. Chiama suo marito, prende le proprie cose e torna a casa. 

“Mezz’ora dopo ero sul divano a guardare il vuoto, incredula di aver vissuto tutto quello. L’ospedale non mi ha rilasciato nessun foglio per la mutua, nessuno riconosce il lutto per la perdita di un figlio, perché ufficialmente non è mai nato”.

In Italia non esiste ancora una legge che preveda un congedo in caso di aborto, che sia spontaneo o volontario, nei primi 180 giorni dalla data di inizio della gravidanza. Successivamente invece, si ha diritto a un congedo perché l’aborto è considerato un vero e proprio parto. 

“Ognuno vive questa esperienza in maniera personale, ma per una coppia che cerca un figlio, si tratta in realtà di una ‘presenza’ sentita sin dalla prima settimana, e per quel che mi riguarda di un lutto a tutti gli effetti”.

Infatti, paesi come l’India o la Nuova Zelanda hanno approvato recentemente una nuova legge che prevede un congedo pagato indipendentemente dal momento in cui l’aborto si verifica.

Non può essere considerato un congedo per malattia perché non lo è; il dolore dell’anima è più grande del malessere fisico, ed è una perdita che richiede tempo per essere affrontata”.

Dopo quello che è accaduto Raffaella si è informata su entrambe le pratiche abortive, e si chiede se, nel caso avesse scelto l’aborto chirurgico con anestesia, la esperienza sarebbe stata meno sconvolgente. Una scelta che non le è stata proposta, anche perché, probabilmente, ad oggi per il servizio sanitario nazionale il costo di un aborto farmacologico è decisamente meno caro di uno chirurgico. 

“So solo che l’immagine di quell’uccellino tra le mani continua ad essere viva nella mia mente. Per fortuna in rete ho letto tante storie simili alla mia, che in comune non hanno solo l’esperienza fisica, ma quella emotiva, ovvero l’essersi sentite sole in un momento della propria vita così delicato. 

Credo che dare voce al dolore di tutte aiuti a sentirsi meno isolate e a spingere i presidi sanitari a mettere in campo professionisti in grado di garantire un supporto psicologico e procedure più umane per coloro che devono affrontare l’interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria che sia”. 

 

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