Adozione da single, una lotta contro i pregiudizi

da | 28 Feb, 2022 | Lifestyle, Pillar

Una storia di amore e adozione, tra due continenti, che mette in mostra le contraddizioni legali del nostro paese

In Italia, la legge permette l’adozione piena solamente a coppie sposate ed eterosessuali. I genitori single adottivi esistono, ma sono considerati “genitori di serie B”: a loro vengono affidati casi speciali o bambini adottati da italiani residenti all’estero, che hanno seguito l’iter adottivo nel paese di cui il bambino è originario.
Un approccio all’adozione che fa emergere le contraddizioni dell’attuale regolamentazione italiana, ben diversa da quella di altri paesi, che invece riconoscono l’unicità e il valore di tutti i tipi di famiglia.
Francesca ci racconta la sua storia d’amore come mamma di Carlos, sottolineando tutte le criticità di un tema che suscita interesse nell’opinione pubblica ma purtroppo lasciato in sospeso dalla politica.

Diventare mamma in Mozambico

Francesca, romana, da circa 16 anni lavora in progetti di cooperazione, nell’ambito della salute pubblica, in Organizzazioni Internazionali e ONG. Ha trascorso una buona parte del suo tempo all’estero, in particolare in Mozambico, dove ha vissuto per 8 anni.
“Quella del Mozambico è stata più una scelta di vita che lavorativa – spiega Francesca -. Ho scelto quel paese perché è lì che volevo trascorrere un lungo periodo.

Ed è stato proprio in Mozambico che ho portato avanti il mio progetto di diventare mamma. Ho sempre sentito molto forte il desiderio di maternità, ma, come accade a tante donne, non ho trovato il giusto partner per creare una famiglia.

Questo però non l’ho vissuto come un impedimento, anche grazie all’esempio e all’esperienza positiva di un amico che aveva adottato due bambini in Mozambico da single.

Così ho deciso di lanciarmi: in Mozambico infatti, l’adozione è aperta anche ai single. Poichè ero residente lì da due anni mi era permesso seguire l’iter adottivo previsto dal paese e poi richiedere successivamente il riconoscimento dell’adozione in Italia.”.

Un bimbo dagli occhi grandi

“Con l’aiuto del mio amico, mi sono rivolta a un orfanotrofio che appartiene a un progetto comunitario in una zona rurale. La struttura accoglie orfani, bambini di strada ma anche i figli delle famiglie più povere della comunità locale, dando loro la possibilità di ricevere un pasto e studiare.
Ricordo il primo giorno in orfanotrofio, in cui sono stata invitata ad assistere alla messa nella cappella. Davanti a me c’era un bimbo di circa otto anni, che teneva in braccio uno piccino.

Lì i più grandi sono da subito responsabilizzati nel prendersi cura degli altri bimbi.
Il piccolino mi fissava e lo ha fatto per tutta la durata della cerimonia. Ho poi scoperto, parlando con la direttrice, che Carlos aveva tre anni, era arrivato da pochi giorni e avevano già ipotizzato un possibile abbinamento tra me e lui.
La mamma era morta due settimane prima e il papà, che per coincidenza lavorava come guardiano dell’orfanotrofio, era mancato l’anno precedente.

Da quel momento mi sono sentita come dentro una grossa centrifuga, è andato tutto velocissimo. Trascorrevo con lui l’intero fine settimana, mangiavamo insieme e lo mettevo a dormire. Il lunedì staccarsi era dura, anche perché dopo poco più di due settimane ha iniziato a chiamarmi mamma. Lui sapeva che la sua mamma era malata, ma non aveva ancora capito il vero significato della morte, né aveva rielaborato la sua assenza”.

 

Un vortice di emozioni

“All’inizio Carlos raccontava agli altri bambini che aveva due mamme, una ero io e l’altra era rimasta a casa. Era anche molto possessivo e non voleva che loro si avvicinassero a me. Dopo circa un mese è venuto finalmente a vivere a casa mia, e l’orfanotrofio mi ha seguito nella parte burocratica, aiutandomi a finalizzare l’adozione.

Il post-adozione è stato ben diverso da quella che è generalmente l’esperienza in Italia: consisteva in qualche chiacchierata con la direttrice che mi dava consigli sulla base della sua esperienza, ma senza alcun supporto psicologico o altri percorsi strutturati.

Ho quindi deciso di rivolgermi alla mia psicoterapeuta in Italia, che per me era un punto di riferimento già da tempo, anche a distanza. Il suo aiuto è stato più che utile, direi fondamentale.

Ci sono stati momenti difficili, in cui proprio non sapevo come comportarmi. Il peggiore tra tutti è stato quando, dopo neanche un mese, Carlos ha capito che non avrebbe più rivisto i suoi genitori: è stato davvero drammatico e io ero in difficoltà.

Era arrabbiato e non capiva perché se ne fossero andati. Se gli raccontavo che erano in cielo, voleva prendere un aereo per andare da loro; se dicevo che non era colpa loro, perché tutti muoiono, allora diventava ancora più triste perché aveva paura che accadesse anche a me.

Non potevo rassicurarlo, perché non voleva essere rassicurato, l’unica cosa che potevo fare era ascoltare, capire, e cercare di metabolizzare il lutto insieme a lui. Successivamente l’argomento è emerso molte altre volte, ma grazie al confronto con la psicologa sono riuscita a gestire meglio i suoi stati d’animo”.

Nel paese dei “bianchi”

Dopo soli due mesi l’adozione in Mozambico viene finalizzata e Francesca è la mamma ufficiale di Carlos a tutti gli effetti, ma non ancora in Italia.
“Da tempo avevo l’idea di tornare in Italia con Carlos; avevamo trascorso lì le vacanze estive e lui aveva accolto bene questa possibilità. Avrei potuto anche contare sull’aiuto di mia mamma, che era venuta in Mozambico un mese prima della partenza per aiutarmi e aiutare Carlos a costruire relazioni già prima di trasferirsi. Per lui il cambiamento è stato inizialmente molto positivo.

A quattro anni non ci si rende conto delle distanze e Carlos già parlava italiano prima del suo arrivo in Italia.
I problemi sono arrivati quando, dopo alcune settimane di scuola materna, ho notato in lui un cambiamento. Aveva paura di interagire con bambini che non conosceva perché temeva di essere respinto e si nascondeva spaventato sotto le coperte ogni sera. A scuola una bambina gli aveva detto che era brutto perché era nero, ma la cosa peggiore era che, quando ne avevo parlato all’uscita con l’insegnante, segnalando il fatto che era stato vittima di razzismo, lei mi aveva detto di non poter fare nulla al riguardo.

Ho quindi chiesto un colloquio con le insegnanti e la scuola per trovare insieme una soluzione e capire come l’istituto gestisse l’inclusione. Quali attività mettevano in pratica per preparare i bambini all’accoglienza di un compagno considerato ‘diverso’?

Sapevo che esistono giochi inclusivi, racconti, oppure semplicemente, visto che stavano lavorando sul corpo umano, avrebbero potuto spiegare ai bambini che esistono tante tonalità di pelle. Mio figlio infatti, un giorno è venuto a casa credendo di non avere la pelle, perché vedeva sempre illustrazioni con la pelle rosa.
Da parte della scuola però non ho ricevuto risposte. Viviamo in un paese piccolo in provincia di Roma, dove gli stranieri sono pochi e le scuole purtroppo non sono sempre preparate all’accoglienza.
Nella capitale le cose sono diverse, ma a metà anno scolastico non avrei trovato posto per lui. Ho anche contattato l’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali, per organizzare un incontro con la scuola, ma nella pratica alla fine non siamo riusciti a fare nulla.
Ho quindi deciso a malincuore di non fargli più frequentare quella scuola che gli generava tanto malessere. Ha seguito un corso di rugby, dove ha trovato un ambiente molto più inclusivo che gli ha permesso di socializzare.

E poi abbiamo atteso settembre. Con l’inizio della scuola primaria la situazione è decisamente migliorata: i nuovi insegnanti sono stati molto più attenti all’inclusione e a Carnevale hanno anche fatto una sfilata con abiti di tessuti africani”.

Quel “vuoto dentro”

“Essere genitore significa vivere tante cose meravigliose. Poi ci sono le difficoltà, e le situazioni difficili da affrontare. E poi ci sono le situazioni che ti distruggono il cuore. Mi capita ogni volta che Carlos pensa ai suoi genitori e mi dice ‘perché è successo proprio a me? Sento un vuoto dentro che non riesco a riempire’.

In quelle circostanze non gli dico che è un bambino fortunato, perché così non è. Come si può dire a un bambino orfano che è stato fortunato? Allora gli rispondo che sentirsi così è perfettamente lecito. Che ha attraversato un’esperienza difficilissima ed è giusto che esprima e tiri fuori il suo dolore.

L’esperienza della pandemia è stata molto difficile per lui, come per tutti i bambini che hanno vissuto un lutto importante nella propria infanzia e che si sono confrontati con la morte. Lui aveva paura che io morissi e di rimanere solo.
Per quanto riguarda i contatti con la famiglia di origine, da quando siamo partiti cerchiamo di mantenerli vivi e grazie al supporto della direttrice dell’orfanotrofio, ci mandiamo messaggi, foto e lettere. Due dei fratelli di Carlos sono ancora ospiti dell’orfanotrofio e il fratello più grande collabora nella struttura”.

Genitori di serie B, di figli non legittimi

Il percorso di adozione in Mozambico prevedeva, al termine delle pratiche, l’emissione di un nuovo certificato di nascita che recide ogni legame giuridico con la famiglia di origine.
In Italia però, Francesca ha dovuto chiedere il riconoscimento dell’adozione al Tribunale di Roma.
“Anche se avevo finalizzato l’adozione in Mozambico – spiega Francesca – in Italia il bambino non era in automatico riconosciuto come mio figlio. Il tribunale di Roma deve verificare la procedura di adozione nel paese di origine, al fine di evitare le adozioni illegali.

Ero convinta si trattasse di un semplice passaggio, ma quando è arrivato l’esito della sentenza mi sono scontrata con la realtà italiana.
Grazie all’aiuto di un amico avvocato esperto in adozioni che ha seguito la mia pratica, ho scoperto che non avevo ottenuto il riconoscimento come genitore a tutti gli effetti. Il Tribunale di Roma mi aveva infatti solo concesso l’adozione di un “caso speciale” (essendo io mamma single) e il bambino risultava figlio adottivo non legittimo.

Secondo lo Stato Italiano mio figlio, non essendo legittimo, aveva legami di parentela legale solo con me. Questo vuol dire che, se io avessi avuto un figlio biologico, non sarebbero stati legalmente fratelli. Non solo, non era legalmente nipote di mia madre o di mio fratello. Questo rappresentava un problema perché se mi fosse successo qualcosa la mia famiglia non avrebbe avuto il diritto di occuparsi di lui.

Inoltre, secondo la legge italiana riguardante le adozioni in casi speciali, Carlos manteneva i legami con la famiglia biologica senza però tenere conto del fatto che, dal punto di vista legale, questi legami in Mozambico erano stati rescissi. Carlos aveva solo me al mondo, rendendolo un bambino di serie B.

Ho quindi deciso di fare appello velocemente, avevo solo dieci giorni di tempo. Casualmente c’era un’altra donna che stava affrontando la stessa situazione giuridica presso lo stesso tribunale e credo che questo abbia aiutato a ottenere la legittimità dei nostri figli dopo otto mesi di attesa.
Siamo stati i primi due casi a Roma e il quinto e sesto caso in Italia.
Nel frattempo ero già rientrata in Italia da diversi mesi e quella situazione a metà creava non pochi problemi. Iscriverlo a scuola e accedere agli altri servizi è stato molto complicato”.

Un paese di contraddizioni

L’Italia riconosce i figli adottivi ai single solo se si tratta di casi speciali, e generalmente consente l’adozione in caso di bambini che non sono stati accolti dalle famiglie considerate idonee all’adozione (quindi bambini con disabilità oppure ormai troppo grandi).

Insomma, genitori di serie B per bambini di serie B, e con una relazione di parentela a metà, che non prevede la legittimità del figlio. Una situazione paradossale, considerando che i genitori single biologici in Italia sono tanti, e ancora di più se si pensa che, se una coppia etero intraprende il percorso di adozione ma si separa successivamente, uno dei due coniugi ha il diritto di finalizzare l’adozione. Una vera e propria contraddizione legale.

“Secondo me il quadro legislativo italiano nell’ambito delle adozioni e affidamento è contradditorio: da una parte non permette l’adozione ai single, dall’altra invece permette che i single possano avere bambini in affidamento”, sostiene Francesca.
I bambini dati in affido provengono da situazioni di disagio sociale e l’affido prevede che i bambini passino del tempo con le famiglie di origine. Molte volte questo comporta grandi difficoltà emotive per i bambini ed i genitori affidatari si confrontano con situazioni molto complesse.

Se in Italia un single è considerato capace di gestire situazioni di questo tipo, perché non è considerato in grado di gestire un’adozione? Credo che si tratti di un retaggio moralista che vede nella famiglia “tradizionale” l’unica forma di famiglia legittima, relegando gli altri tipi di famiglie, monoparentali o omogenetoriali, a famiglie di serie B.
Ci sono state proposte di legge che non sono state finalizzate, ma riguardavano solo le adozioni per single e non contemplavano le coppie gay, quindi non sono state sostenute dalle associazioni LGBTI. Credo che tutte le diverse realtà dovrebbero unirsi e lottare per un unico obiettivo: riconoscere gli stessi diritti a tutti i tipi di famiglie, anche se questo vuol dire conquistare un pezzettino alla volta”.

Esistono tante forme di famiglia, con diverse composizioni ma un unico modello: quello dell’amore e della responsabilità che un genitore sceglie di assumere verso un bambino, che sia biologico o adottivo.

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