Clementina è nata in Belgio, portatrice di Trisomia 21. Dopo una gravidanza e un inizio poco “accoglienti” i genitori hanno scelto l’Italia, un paese che considerano ancora in grado di accettare la diversità
Ma veramente all’estero si vive meglio? I grandi paesi del Nord Europa sono sempre in cima alla classifica delle nazioni con una qualità della vita superiore a quella italiana. Meglio, certo, per tantissime ragioni. Ma non sempre. Non per tutto. C’è chi si è trasferito dal Belgio all’Italia alla ricerca di grande valore: l’accoglienza verso una patologia conosciuta, la Trisomia 21.
Ce lo raccontano Liana – romana – e Michael, canadese. La loro vita insieme è un vortice di cambiamenti e di viaggi. Si sono incontrati in Canada e hanno trascorso lunghi periodi insieme a Roma, in Portogallo, in India, in Argentina, passando per Afghanistan e Panama. Finalmente approdano a Bruxelles, in Belgio, dove decidono di trasferirsi, cercare lavoro e chissà, mettere su famiglia. Nella capitale europea chiunque si sente a casa e i due giramondo sentono di aver trovato, forse, il proprio posto nel mondo.
Una gravidanza difficile
Nel 2014 Liana scopre di essere incinta. “Sembrava che tutto stesse procedendo benissimo, ma all’ecografia morfologica del quinto mese ho scoperto che la nostra bambina poteva avere qualche problema di salute. Per una settimana sono state ipotizzate le malattie più terribili, ma alla fine è risultato che era affetta da Trisomia 21, cioè la Sindrome di Down.
Dopo un primo momento di grande disorientamento, abbiamo iniziato a documentarci e informarci su un mondo per noi sconosciuto. In Belgio c’è un numero verde che fornisce informazioni sulla Sindrome di Down e sulle altre disabilità. Chiamando mi sono resa conto che è utilizzato quasi esclusivamente da genitori che hanno scoperto l’handicap dei figli al momento della nascita, nessuno in gravidanza”.
Cosa significa?
“Avevo chiamato sperando di conoscere altri futuri genitori nella nostra situazione, ma la ginecologa mi ha detto che le otto coppie che in quel periodo avevano avuto la stessa diagnosi, avevano abortito. Noi non abbiamo mai preso in considerazione l’ipotesi di liberarci di nostra figlia. Era la nostra bimba, attesa per tanto tempo e fortemente cercata e voluta.
Non ci è passato mai per la testa di giudicare chi prende una decisione diversa dalla nostra, ma nel nostro caso ci siamo sentiti quelli ‘strani’ e diversi dalla scelta più comune.
Attorno a noi c’era un muro. I medici non avevano, a mio parere, un approccio oggettivo o neutrale. Ci indirizzavano verso l’aborto in modo troppo leggero, dicendoci che ci saremmo rovinati la vita, che eravamo giovani e avremmo potuto avere altri figli. Tutto questo mi ha fatto davvero soffrire”.
L’arrivo di Clementina
Il 15 giugno 2015, con qualche complicazione e il taglio cesareo, Clementina è finalmente tra le braccia di Liana e Michael.
“L’ospedale che abbiamo scelto per il parto ci ha offerto il sostegno di una psicologa che ci ha accompagnati prima e dopo la nascita. Una volta usciti, abbiamo trovato una piccolissima Onlus che accompagna genitori che hanno figli con Sindrome di Down e offre corsi, come per esempio quello del linguaggio dei gesti. Ci hanno aiutato a trovare un posto al nido pubblico e assistito con le maestre nel percorso di inserimento. Un sostegno utile, che però non ha nulla a che vedere con un vero servizio sociale. In Belgio i bambini con disabilità non hanno nessuna priorità rispetto agli altri e le scuole stesse, se il personale non si sente preparato a seguire il caso, possono rifiutare l’iscrizione.
Inoltre, dal punto di vista sanitario, non sono previste esenzioni per le visite specialistiche, nonostante questa sia un’esigenza importante e costosa, date le numerosissime visite e gli specialisti da consultare. In questo contesto la burocrazia non aiuta: per ottenere un sussidio minimo il percorso è stato molto complesso. È necessario cercare gli specialisti da soli e cavarsela: tutto il carico è sulle spalle dei genitori. Nel pubblico abbiamo avuto la possibilità di essere seguiti da un fisioterapista, con una copertura parziale della spesa.
Abbiamo però rinunciato alla logopedia, perché i professionisti sono tutti privati e trovarne uno specializzato in sindrome di Down era difficilissimo”.
L’associazione che ha sostenuto Liana, Michael e Clementina è piena di persone fantastiche. “Sono molto legata a loro – dice Liana – ma il sostegno che ci hanno dato è stato più psicologico che pratico.
In Belgio, se hai un figlio con disabilità, ti devi abituare al fatto che dovrai lottare per ottenere degli aiuti e per difendere i suoi diritti, come l’integrazione scolastica o il sostegno educativo e sanitario. Nulla è scontato. Vieni considerato in situazione di difficoltà e l’associazione ti supporta psicologicamente per affrontare questa battaglia.
Già in partenza ti senti in una posizione di svantaggio rispetto agli altri e questo ti impedisce di concentrarti su quelle che sono le vere esigenze di tuo figlio”.
Un Paese “dentro gli schemi”
In Belgio, il tasso di interruzioni volontarie di gravidanza a causa della trisomia 21 è pari al 95,5%. Semplicemente, i bambini affetti da Sindrome di Down non vengono fatti nascere. I bambini con disabilità frequentano nella maggior parte dei casi delle “scuole speciali” che comprendono elementari e superiori, modello ben diverso da quello italiano di integrazione scolastica.
“Le scuole speciali includono tipi di handicap molto diversi, ovviamente con un grande svantaggio per gli handicap lievi. Lo Stato dovrebbe proteggere i più deboli e garantire uguali opportunità, eppure il peso è a carico delle famiglie che si trovano spaesate e non sanno come affrontare la situazione.
Questo quadro spiega già da solo il motivo per cui quasi tutti i genitori scelgono l’aborto volontario. Fa paura trovarsi da soli a combattere una battaglia per tutta la vita”.
Le scuole speciali a cui affidare Clementina non erano la sola preoccupazione di Liana: “Mi preoccupava anche il modo in cui la gente la guardava, colleghi e conoscenti compresi. Avvertivo una mancanza di apertura mentale nei confronti di un bambino che non rientra nella normalità.
Era come se le persone facessero fatica ad accettarlo, era come se mia figlia fosse già etichettata in una categoria sin da quando era ancora un feto. L’idea di avere una vita felice con un figlio che non rientra nella ‘normalità’ era per loro impossibile. A volte mi sentivo oppressa da un sistema in cui essere sotto controllo e nulla può essere fuori dagli schemi”.
La ricerca di nuove prospettive
Liana e Michael avevano un sogno: lasciare la città e fare un’esperienza di vita in campagna. “Quando abbiamo scoperto che Clementina aveva la Trisomia 21 abbiamo pensato che per lei sarebbe stato meglio crescere nel Nord Europa per via dei servizi, seguendo l’opinione corrente che si sta sempre meglio altrove”.
Ma due anni dopo la nascita, la famiglia si è resa conto che il Belgio e la vita in città non offrivano loro nulla di irrinunciabile, anzi.
Tante cose potevano sicuramente migliorare: era giunta l’ora di cambiare.
“Pensavamo alla Francia, al Portogallo, ma poi abbiamo valutato l’Italia, il mio paese natale. Abbiamo amici nelle Marche, in provincia di Ancona, e ci siamo innamorati di un rudere in cima a una collina. Siamo convinti che i figli sono felici se i genitori sono felici, ma abbiamo comunque valutato bene ogni aspetto per capire quale fosse la scelta migliore per Clementina. Alla fine la vita in campagna, in Italia, ha vinto su tutto.
“L’Italia è un altro mondo”
Quando ho iniziato a informarmi sui servizi per i bambini con sindrome di Down, mi sono resa conto che l’Italia era il posto migliore per lei. Ricordo che prima di trasferirci ero a Roma e sono andata a informarmi in un Centro sul bilinguismo per i bimbi con Trisomia 21.
In Belgio nessuno sapeva dirmi nulla, mentre a Roma mi hanno subito consegnato sette studi diversi su questo argomento. Ho capito che l’Italia era un altro mondo: avevo la possibilità di leggere ricerche sull’argomento, potevo consultare persone davvero specializzate.
Ho incontrato famiglie nella stessa situazione che hanno condiviso i loro contatti e mi hanno trasmesso messaggi di speranza. Ricordo una mamma che mi ha detto: ‘Smetti di guardare tuo figlio attraverso i tuoi occhi, cerca di vedere il mondo attraverso i suoi’. Insomma, tutto ciò che in Belgio era visto come una sofferenza, qui era affrontato con positività. Questo ci ha fatto prendere la nostra decisione senza più voltarci indietro”.
Una vita nuova per tutti
“Qui in Italia il primo grande lavoro è stato riformattare noi stessi. Non guardare più nostra figlia come una bambina con difficoltà o diversa. Nel nuovo paese, e nella scuola in cui è iscritta, è trattata come una bambina come le altre. Sono convinta che in Italia ci sia un approccio molto diverso alla vita.
Quando è nata Clementina abbiamo notato la differenza tra la reazione tra i nostri amici del Nord e quelli del Sud. I primi ci guardano con pena e compassione, tra i secondi l’approccio era totalmente diverso. In Italia, quando metto davanti a tutto la trisomia, mi chiedono: qual è il problema? In Belgio ringraziavo ogni giorno le maestre per aver accettato nel loro asilo una bambina fuori dalla normalità. Qui non devo ringraziare nessuno, andare a scuola con gli altri è un diritto.
L’approccio è integrativo sin dall’inizio, e da sempre sei parte di una società che ti accetta e cerca di garantire, per quanto possibile, tutto ciò di cui hai bisogno. Potevo addirittura scegliere tra quattro diversi centri riabilitativi e i servizi sociali di Ancona ci hanno fissato tutti gli appuntamenti necessari con gli specialisti. Non mi sembrava vero!”.
Due lingue e un fratellino
Oggi Clementina ha 4 anni, corre e si arrampica, parla due lingue – italiano a scuola e inglese con i genitori – ed è una bambina autonoma. Ha un fratellino di un anno, che si chiama Cosimo.
“Non nego che anche qui in Italia alcune cose potrebbero essere migliori, come il diritto al sostegno del Comune e l’assistenza a scuola, due aiuti gestiti da enti separati che richiedono procedure differenti e non sempre chiare. Inoltre, non tutte le insegnanti di sostegno hanno esperienza diretta con la sindrome di Down, ma per me a questa età è importante l’affetto e la buona volontà.
Anzi, sono proprio loro che spesso mi convincono dell’assenza di differenze tra Clementina e gli altri bambini”.
Uno sguardo al futuro
Guardando al futuro, cosa vorreste? “Vorremmo cercare di tenere aperte tutte le porte, senza limitare la scelta di cosa farà nostra figlia sulla base di quello che può o non può fare. Abbiamo visto che qui è cambiata; vivere nella natura e all’aria aperta l’ha aiutata a crescere e a fare progressi enormi nelle abilità motorie, nell’autonomia e nel linguaggio.
La città offre tante opportunità, ma non per tutti. Per il momento vivere in mezzo alla natura è quanto di meglio poteva capitare, a nostra figlia e a noi. Sembrerà strano ma, nonostante in città avessimo tanti amici, qui ci sentiamo meno soli, perché siamo parte di una comunità intergenerazionale, dove ogni occasione di incontro integra la vita del bambino a quella dell’adulto”.
Dunque l’Italia è stata una alternativa positiva? “Rispetto al Nord Europa abbiamo avuto accesso a servizi eccellenti che non hanno mai messo nostra figlia ai margini, ma l’hanno valorizzata come cittadina. Ma sono soprattutto le persone che incontriamo nella vita di tutti i giorni che ci confermano che la diversità di Clementina non solo è accettata, ma addirittura celebrata”.