Qualche anno fa, una semiseria Luciana Littizzetto riportò su La Stampa gli esiti di una ricerca sui nostri capi di abbigliamento. Magliette, pigiami, maglioni, borse e pantaloni conservano una inimmaginabile varietà di sporcizia accumulata già in negozio ancor prima di comprarli: tracce di trucco, sudore, pelle umana. Da allora (anche se tacciata di manie ossessivo-compulsive da parenti e amici) non indosso più nemmeno un calzino nuovo se non l’ho lavato prima. E lo stesso faccio, a maggior ragione, coi capi dei miei figli. Quello che ancora non sapevo, ahimè, è che capelli e fondotinta altrui sarebbero, a conti fatti, gli ospiti meno indesiderati dei nostri armadi. Diverse indagini condotte da Greenpeace International fin dal 2011 hanno rivelato la presenza di sostanze chimiche pericolose tra le fibre di capi di abbigliamento, dalle felpe per la scuola ai vestiti d’alta moda. Di quali sostanze si tratta? E che cosa si intende per pericolose?
Zampette appiccicose
La ricerca condotta da Greenpeace si intitola “Piccoli mostri nell’armadio” (“A little story about the Monsters in Your Closet”) e studia le sostanze dannose per la salute utilizzate nella produzione di capi di abbigliamento. La campagna Detox sfida le maggiori aziende di abbigliamento a eliminare dai processi produttivi le sostanze chimiche ritenute pericolose per la salute e l’ambiente. E, da Adidas a Zara, passando per le industrie del distretto di Prato, molte di queste hanno raccolto la sfida sull’onda dell’eco mediatica sollevata da blogger, giornali e influencer.
Tra maggio e giugno 2013 Greenpeace ha testato 82 articoli per bambini acquistati in 25 paesi del mondo, prodotti in 12 paesi. Il campionamento comprendeva marchi popolari come American Apparel, C&A, Disney, GAP, H&M e Uniqlo, marchi di abbigliamento sportivo come Adidas, LiNing, Nike, Puma e brand di lusso come Burberry. I test mostrano che non c’è grande differenza tra le concentrazioni di sostanze chimiche nei vestiti per bambini rispetto a quelle riscontrate nei vestiti per adulti, analizzati in precedenza dall’associazione. “Un vero incubo per i genitori che desiderino comprare vestiti senza sostanze chimiche pericolose – afferma Chiara Campione, responsabile del progetto The Fashion Duel di Greenpeace Italia -. Questi piccoli mostri li troviamo ovunque, dai vestiti di lusso a quelli più economici e attraverso gli scarti di produzione stanno contaminando i nostri fiumi da Roma a Pechino. Le alternative per fortuna ci sono e per questo l’industria dovrebbe smettere di usare i piccoli mostri, per il bene dei nostri bambini e delle future generazioni”.
Mostri d’alta gamma
Facendo seguito a questa ricerca, Greenpeace ha svolto per la prima volta uno studio specifico sui grandi marchi dell’alta moda. Tra maggio e giugno 2013 ha acquistato 27 prodotti (soprattutto capi di abbigliamento, un costume e cinque articoli di calzature) di otto brand: Dior, Dolce & Gabbana, Giorgio Armani, Hermes, Louis Vuitton, Marc Jacobs, Trussardi e Versace. Dieci di questi articoli sono stati prodotti in Italia, quattro in Cina, tre in Marocco, due in Turchia e, uno per ciascuno, in Ungheria, India e Tailandia. Per cinque prodotti l’etichetta non riportava il paese di produzione. Sedici dei ventisette prodotti sono risultati positivi a una o più di sostanze chimiche pericolose come nonilfenoli etossilati (NPEs), ftalati e composti perfluorati. “Esempi di questi residui sono stati trovati nei prodotti di tutti i marchi rappresentati nello studio, a eccezione di Trussardi, anche se non è possibile trarre conclusioni sull’uso di sostanze chimiche pericolose da parte di Trussardi sulla base di un campione così piccolo”.
A cosa fare attenzione
Ma perché l’industria della moda ricorre a queste sostanze? A cosa servono? Si tratta, per esempio, di composti usati per rendere i vestiti resistenti all’acqua, alle macchie d’olio, persino al fuoco. Sostanze che ammorbidiscono la plastica e persino che profumano i capi. Elementi creati in laboratorio che servono per legare l’acqua usata nei processi produttivi con i coloranti. Tutti utilizzi plausibili pensati per offrire caratteristiche interessanti per i consumatori. Quello che le ricerche hanno rivelato è che questi componenti, rilasciati dai tessuti sulla pelle di chi li indossa o riversati nelle falde acquifere durante i processi produttivi, hanno effetto sull’equilibrio ormonale, sovraccaricano il fegato, possono sviluppare danni alla salute e all’ambiente, anche a lungo termine. “Nonostante i pericoli documentati – continua Greenpeace – le sostanze chimiche pericolose si utilizzano per una varietà di scopi nel processo tessile o nel prodotto stesso: gli NPEs sono ampiamente usati come tensioattivi e detergenti nella lavorazione tessile; gli ftalati hanno vari usi, anche come additivi nelle stampe plastisol (inchiostri plastici) sui vestiti; composti perflorurati e polifluorurati impermeabilizzano e hanno proprietà antiolio, mentre un composto di antimonio (triossido di antimonio) è usato come catalizzatore nella fabbricazione del poliestere. Anche se in molti casi sono disponibili alternative più rispettose dell’ambiente, le sostanze tossiche continuano a essere la prima scelta”. La particolare vulnerabilità dei bambini a determinate sostanze chimiche ha portato le autorità a imporre regolamenti più restrittivi per un piccolo numero di sostanze chimiche pericolose in alcuni prodotti (come gli ftalati nei giocattoli, regolamentati dalla norma CE 1907/2006 – REACH). Ma non è abbastanza.
Percorsi “virtuosi” e possibili
Forte dell’eco dato dai media e dalle aziende virtuose, grazie alla sempre maggiore attenzione dei (genitori) consumatori, l’effetto domino sembra essersi finalmente innescato. Una ventina di aziende della moda del distretto tessile di Prato, il più grande d’Europa, hanno annunciato di aver sottoscritto l’impegno Detox di Greenpeace. Secondo Confindustria Toscana Nord, a cui sono associate, le venti imprese coinvolte hanno intrapreso un percorso verso l’eliminazione di sostanze pericolose dal ciclo produttivo con tappe intermedie e l’obiettivo finale temporale del 2020. Le aziende aderenti sono produttrici di filato, di tessuto e materie prime, sono aziende di tintoria e rifinizione di filati e tessuti, produttori di agenti chimici per l’industria tessile. A questo gruppo, nel mese di marzo 2016, si sono aggiunte altre sette imprese. Oggi 35 gruppi della moda e dell’abbigliamento che rappresentano oltre cento marchi hanno scelto di sottoscrivere l’impegno Detox. Tra gli aderenti ci sono i gruppi Miroglio e Inditex e brand come Valentino, Adidas, H&M e Burberry.
Facciamo pulizia nell’armadio
Con una tale eco internazionale, non stupisce l’interesse di Pitti Bimbo, salone dell’abbigliamento per l’infanzia, che già da qualche anno ospita a Firenze una selezione di marchi attenti alle tematiche etiche ed ecologiche. Alle ultime edizioni, nella sezione Eco-Ethic abbiamo incontrato molti brand internazionali (perlopiù nordeuropei, come il britannico DoodleDo e i francesi Coq en Pâte e Easy Peasy) e qualche perla italiana, come il giovane marchio di origine pugliese Pipi & Pupu. Sollecitati sul tema, questi marchi hanno dato qualche spunto utile per orientarsi nel mercato dell’abbigliamento bambino compiendo scelte eco-etiche e orientate alla salvaguardia della salute dei piccoli consumatori.
Fondamentale, innanzitutto, ricorrere a capi realizzati solo con lino o con cotone organico, certificato Gots o Oeko Tex. Il cotone organico viene coltivato senza sostanze come insetticidi o pesticidi e durante le fasi di lavorazione viene lavato senza le sostanze chimiche normalmente usate per purificarlo. Compiere una scelta di questo tipo non è economicamente impossibile: anche marchi come H&M, Oviesse o GAP hanno una linea “organic”. Benetton ha ideato il cartellino “Vesti Sicuro” per garantire che il prodotto è stato realizzato senza l’utilizzo di sostanze chimiche tossiche o di materiali pericolosi, “in tutta la catena di produzione, dalla lavorazione della materia prima fino al prodotto finito”. Miniconf, azienda italiana che da quarant’anni produce abbigliamento per bambini, con il suo bollino “Approved by Mr. Fagus” dichiara di rispondere a precisi requisiti di sicurezza come l’assenza di ftalati nelle stampe che le rendono più morbide ma che hanno importanti effetti nocivi sulla salute. L’attenzione di queste aziende ha anche il vantaggio di accontentare quelle mamme italiane ancora poco abituate all’essenzialità dei capi comunemente proposti dal mercato ecologico.
Se scegliamo di acquistare capi profumati, come può accadere quando si naviga tra le proposte per i più piccoli, occorre optare per quelli addizionati di soli oli essenziali. La magia durerà solo qualche lavaggio, proprio perché il trattamento è naturale e non aggressivo. Il discorso sembra un po’ più complesso quando si parla di cuoio. Come spiega Easy Peasy, brand francese di scarpe e accessori, né in Francia né in Europa esiste una certificazione per il cuoio simile a quelle per il tessile biologico. In assenza di bollini è essenziale fare attenzione alla comunicazione del marchio che ci interessa. Comprare eco si può.
I “bollini” della moda eco
Il Global Organic Textile Standard (Gots) è una norma tecnica per la certificazione del tessile biologico. Secondo il Gots, un prodotto tessile può essere definito e certificato bio se ha un contenuto di fibre naturali certificate biologiche maggiori al 95% in peso. Il restante 5% può essere costituito da altre fibre naturali, oppure fibre artificiali ottenute da materie prime naturali certificate bio, fibre ottenute da materiale riciclato pre o post consumo. La valutazione di coloranti e ausiliari per l’industria tessile in accordo al Gots si basa sulla verifica delle proprietà con effetti sulla salute e sull’ambiente. Il Gots stabilisce criteri anche per la gestione ambientale degli impianti, i prodotti chimici da usare nei processi manifatturieri, il lavoro etico e altro.
In Italia l’organo certificatore è l’Icea (www.icea.info).
L’Oeko-Tex è un sistema di controllo e certificazione indipendente per il mondo tessile e analizza materie prime, semilavorati e prodotti finiti in tutte le fasi di lavorazione. Sono certificabili filati grezzi e tinti, articoli confezionati (tessuti per uso domestico, biancheria da letto, abbigliamento, giocattoli tessili). I test sulle sostanze nocive includono sostanze vietate per legge, quelle il cui uso è regolamentato dalla legge, sostanze chimiche notoriamente nocive per la salute – ma non ancora regolamentate per legge – e parametri per la salvaguardia della salute. Più un prodotto rimane a contatto con la pelle, più restrittivi sono i requisiti ecologici (www.oeko-tex.com).
Le sostanze pericolose nei tessuti
È difficile capire se nei tessuti sono presenti sostanze pericolose e l’etichetta non aiuta. Sotto accusa sono questi composti.
PFCs – composti perfluorurati: utilizzati per rendere i vestiti resistenti all’acqua, alle macchie d’olio e al fuoco. Trasportati dal sangue, agiscono negativamente sul fegato e interferiscono con gli ormoni che regolano la riproduzione. Potrebbero anche favorire l’insorgenza di tumori.
Ftalati: creati per rendere soffice la plastica, profumati, riescono a penetrare la pelle umana, disturbano l’equilibrio ormonale e possono causare malformazioni negli organi riproduttivi maschili.
NP – nonilfenolo: utilizzato come detergente ed emulsionante, è capace di emulare l’ormone femminile estrogeno e di interferire con l’equilibrio ormonale, non si dissolve facilmente nell’ambiente.
NPE – nonilfenoli etossilati: non esistono in natura, sono utilizzati nell’industria della moda per legare acqua e coloranti nei processi produttivi. Una volta messo in lavatrice, finisce facilmente nei corsi d’acqua.
Cadmio: metallo pesante spesso utilizzato per creare tinture e pigmenti colorati per i tessuti, agisce sul corpo umano indebolendo le ossa e danneggiando il fegato. Sopravvive negli organismi e nell’ambiente per lungo tempo (fonte: www.greenpeace.org).
[Laura Basilico]