Attenzione, carico pesante! Intervista con Annalisa Monfreda

da | 8 Mar, 2023 | lavoro, Lifestyle, Persone

Conversazione con la giornalista e scrittrice Annalisa Monfreda, autrice del libro “Ho scritto questo libro invece di divorziare”, intorno al carico mentale e famigliare

Leggendo Ho scritto questo libro invece di divorziare | cronaca di liberazione dal carico mentale e altre conquiste di Annalisa Monfreda, ho pianto per la rabbia, ho riflettuto, ho imparato un sacco di cose, mi sono sentita vista, collegata, coinvolta in una grande conversazione collettiva che potrebbe accendersi con ogni donna  e uomo che incontro… Guardando le donne che camminano per strada, mi pongo domande nuove: a quali decine di “cose” che riguardano la gestione della casa e il benessere della famiglia stai pensando e cercando di intrecciare a un lavoro che hai o che vorresti avere o cambiare?

A volte le rivoluzioni cominciano da una serie di conversazioni, dalle parole per le emozioni provate ogni giorno nello spazio privato delle nostre case. Spazio privato, intimo, eppure comune a tutte e tutti. Nel suo libro Annalisa Monfreda fa un racconto, personale e universale, del fardello invisibile che ha cominciato a vedere nella trama delle sue giornate, fardello che il modo in cui è organizzata la vita sociale ha caricato sulle spalle soprattutto delle donne. Non solo: questo libro accende la luce anche su altri fardelli invisibili, in termini di ruoli e immaginari, che gravano sulla coppia, sulle madri, sui padri.

Annalisa, in copertina c’è una donna che vola leggera… 

Una delle prime idee che la casa editrice mi ha passato è stato quella di una donna che portava sulle spalle una casa, il peso della casa, invece io volevo un’immagine del “dopo”, del che cosa succede quando ti liberi di questo “carico mentale”, il fardello psicologico della gestione di compiti domestici ed educativi, e che causa affaticamento fisico e soprattutto psicologico”.  

 

Le sensazioni di tutte le donne

“Come si può pensare di pensare, lavorare, amare se bisogna far funzionare una casa?”, scriveva Charlotte Perkins Gilbert? Si può dire che sia questo l’oggetto della tua indagine?

Più che il tema dell’indagine è stata la scoperta. Non sapevo che cosa avrei scritto quando ho iniziato, “la mia bacchetta magica” si era inceppata durante la pandemia, perché il mio spazio di lavoro e creatività era improvvisamente scomparso nel turbine delle cose da fare in casa e ho cominciato a sentire che lì c’era qualcosa da indagare. Abbiamo vissuto una costrizione in quei mesi, è vero, però per chi ha potuto riflettere sulle cose, questa costrizione è stata utile, ha portato a nuove consapevolezze.

Io ho iniziato a vedere ciò che fino a quel momento, passando la maggior parte del tempo fuori casa, era rimasto invisibile ovvero quanto io fossi il genitore di default e anche colei che, nella coppia, aveva la visione d’insieme del grande meccanismo di organizzazione della famiglia. Così ho cercato nella letteratura le sensazioni provate dalle donne che avevano già raccontato il peso non solo di tutte le azioni da compiere, ma i pensieri, l’organizzazione mentale, il costante controllo e ricerca di soluzioni e incastri che gravano soprattutto sulle donne.

Nel libro parli del tempo, dello spazio e delle energie mentali ed emotive dedicate all’organizzazione della vita in famiglia come di una “schiavitù”, ovvero di un lavoro non retribuito, negato nel suo valore, non riconosciuto, illimitato. 

Esatto, io sono figlia di una donna che ha dedicato a casa e famiglia un numero infinito di ore. E se consegniamo – soprattutto noi donne – un numero infinito di ore alla gestione della vita domestica, dove troviamo il tempo per l’arte, la creatività, il lavoro? E nella letteratura queste emozioni sono ampiamente raccontate, da decenni. Nelle mie ricerche ho messo a fuoco, oltre alla rabbia, anche la soddisfazione che provi quando fai qualcosa che è fondamentale per la vita della famiglia. Preparare un pasto, pulire i pavimenti, prendersi cura sono azioni essenziali e hanno un valore fondamentale. È questo valore a non essere visto, oltre al carico. Come mai, anche economicamente, sia alle professioni della cura in generale sia a quelle che si occupano dei bambini e delle bambine, in casa e fuori, non viene dato valore e riconosciuto, anche economicamente, un valore? Ho voluto andare all’origine di questa divisione del lavoro.

 

Conversare, dialogare

Nel libro scrivi che “il patriarcato non è altro che un racconto”. Quando ho letto questa frase ho provato un senso di leggerezza e ho intravisto una via da percorrere: allora raccontiamo un’altra storia, mi sono detta, altre storie! Per te, questa parola ha acquisito un nuovo senso dopo aver scritto il libro?

Posso dirti di essere femminista in tutte le parti del mio corpo, ma che, prima di scrivere questo libro, per me l’essenziale è sempre stato creare conversazioni e trovare un terreno di confronto comune sulle idee, e visto che sentivo la parola “patriarcato” divisiva, se sentivo che chiudeva il dialogo invece di aprirlo, non la volevo usare. Lo stesso valeva per femminismo. Se sento che una parola divide, non la uso perché non mi interessa sfidare il mio interlocutore, mi interessa dialogare con l’altro sulle idee. Poi, nel fare le ricerche per il libro ho cominciato a mettere a fuoco la parola “patriarcato” in un’accezione più scientifica, come il “sistema sociale di organizzazione del mondo” così com’è oggi, un sistema che risulta oppressivo e limitante per tutti i generi; e che però è solo uno dei tanti modi in cui può essere organizzata la società. Certo, danneggia specificatamente le donne, ma se uno dei due generi è danneggiato, anche l’altro genere non se la passa troppo bene. 

Oltre alle parole, uno dei muri che ci può dividere come esseri umani e che può separarci da una maggiore libertà per tutti e tutte noi è quella tra lo spazio privato e lo spazio pubblico. Quei muri sono fatti di idee, convinzioni, costrutti sociali e politici, che possono essere messi in discussione, soprattutto se ci fanno soffrire. 

Questo aspetto è davvero cruciale: la mancanza di narrazioni comuni e condivise sul “privato” ci divide e impedisce di generare un cambiamento sociale. Su questi temi rischiamo di non riconoscere che alcune questioni non sono individuali ma sociali. E politiche. 

Come donne non dobbiamo vergognarci di riconoscere questa disparità e il fatto di essere condizionate da una certa “idea di donna, compagna, madre”, che è un’idea sociale, che ci accompagna da secoli e con la quale ciascuna di noi si confronta, al di là dei privilegi, del fatto di lavorare o no, dell’aver sposato un uomo più o meno femminista. 

E allora ecco che se creiamo delle conversazioni e se queste conversazioni ci aiutano a vedere e cambiare i meccanismi collettivi, può cambiare anche ciò che accade tra le mura di casa.

Conversazione mi sembra un’altra parola preziosissima nella costruzione della consapevolezza e del cambiamento: con te stessa, con tuo marito al tavolo della cena, con le studiose con cui hai parlato, con le tue figlie. Me ne racconti qualcuna? Quale ti ha sorpresa di più?

L’altro giorno una mia collaboratrice trentenne con tre figli piccoli mi ha detto che il suo compagno le ha regalato il libro, l’ha letto lei, poi lui, e infine si sono presi un paio d’ore, un mattino, senza i bambini, per parlarne. Mi ha detto che è stato bellissimo affrontare in modo non “tossico” la disparità del carico mentale e del lavoro famigliare. Loro sono nella situazione in cui si trovano molte coppie: lui ha un posto fisso e sente di dover garantire il mantenimento della famiglia ma vorrebbe anche essere più presente in casa, lei lavora come freelance e si fa carico della maggior parte del lavoro di bambini e casa. Entrambi soffrono e se lo sono detti.

Capire il meccanismo dentro cui si trovano è già un passo. E può salvare la coppia dalla disparità che a volte si può scambiare per disamore. Per questo il libro si intitola così. E i miei suoceri hanno letto il libro e hanno deciso di andare in terapia. A 80 anni! Hanno fatto due incontri con una terapeuta, perché il sistema patriarcale (inteso non come colpevolizzazione del maschio ma come struttura della società) agisce su tutte le coppie, a qualsiasi età. Un altro esempio riguarda una coppia omosessuale, un mio amico e il suo compagno.

È importantissima la tua riflessione, mi ha detto. E dal suo racconto ho avuto conferma del fatto che il carico mentale è un tema di genere ma è anche un tema che riguarda la divisione del lavoro tra dentro e fuori casa, tra chi si occupa della casa e della famiglia e chi è dedito al 100 per cento al lavoro. 

 

Guardarsi da un altro punto di vista

Giusto per non dimenticarci di “vedere” il carico mentale, quale oggetto presente in ogni spazio privato può ricordarci dell’esistenza del carico mentale?

L’idea del carico mentale mi è venuta guardando il mio computer: ho sempre decine di file aperti sullo schermo del mio pc, l’arrivo di decine alert e di notifiche è il carico mentale. Ed è il contrario dell’avere quello stato di flusso, quelle due o tre ore di immersione in uno spazio-tempo che non comporta l’attenzione a nessun altro se non a te stessa e a ciò che stai facendo. E un solo file aperto. E non solo: quando torno a casa dal lavoro dopo due tre ore di stato di flusso e di concentrazione, mi posso godere la sorpresa di ciò che hanno fatto le mie figlie, perché per qualche ora non me ne sono occupata con decine di promemoria e note o anche solo con la sensazione di dovermene sempre occupare io, come genitore “di default”. 

E se avessi già divorziato? O se si è genitori single?

Ho una carissima amica che ha fatto due figlie da sola, monoparentale totale dunque, e per scelta; ecco, lei mi racconta che anche a lei il libro parla, perché la visione della divisione dei compiti e dell’idea della donna si ritrova ovunque, con i colleghi, con il capo, con la famiglia d’origine. 

Nel tuo libro scrivi: “ho trascorso i primi anni da madre sottilmente arrabbiata con mio marito, padre delle mie figlie. Gli rimproveravo senza saperlo qualcosa che succedeva nelle nostre rispettive teste. Il tempo del lavoro per me era diventato tempo rubato alle figlie, da ridurre al minimo, da espiare continuamente. Mentre il tempo del lavoro, per lui, era il modo di prendersi cura delle figlie, di provvedere a loro. Questo era indipendente da quanto ciascuno di noi contribuisse al sostentamento familiare. Atteneva solo ed esclusivamente a cosa significa essere madre e padre nella società in cui siamo cresciuti”. Come hai scoperto di essere immersa in questa ulteriore sfaccettatura del carico famigliare e mentale?

Nell’esplorare il fatto di accorgermi di essere il genitore di default, ho letto diversamente il mio modo di essere stata madre finora e per anni. La maternità era talmente centrale nella vita, da diventare la misura del mio successo. Il mio successo, dissi una volta a un coach durante una sessione di formazione in azienda, erano le mie figlie. Sul momento pensai: che strano, dirigo una rivista, come mai ho risposto così? Solo scrivendo questo libro ho capito che non era mio il criterio del successo che avevo espresso con queste parole, era un criterio sociale. E non sto parlando dell’amore. Ma la società valuta le donne che sono madri e al tempo stesso lavorano, prima di tutto come buone madri. 

E i sensi di colpa che ho vissuto mentre mi dividevo tra lavoro e maternità dipendono da questo criterio di valutazione introiettato, che era diventato il mio angolo cieco e vulnerabile. Ed era anche il punto debole dove le mie figlie potevano colpirmi con le loro battutine: non vieni “mai” a prendermi a scuola o alle feste. Quando ho cambiato il mio modo di vivermi e di vedermi, i sensi di colpa sono scomparsi, e il messaggio che passo alle figlie è tutto diverso: le coinvolgo nelle cose che faccio nel mondo, tra noi c’è complicità. E pian piano cambia tutto. 

scritto questo libro invece di divorziare

 

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