Gli uomini in casa lavorano meno delle donne, e se ci sono dei figli la diseguaglianza cresce. Le cose stanno migliorando, ma la strada è ancora lunga. I primi passi di un lungo percorso di, come dicono gli esperti, armonizzazione dei tempi: conciliazione è la parola sbagliata, perché, se sostenuti dalle giuste politiche, non c’è nessun conflitto da conciliare.
“Non perché è mio nipote -mi diceva sua nonna appoggiata al divano appena siamo rimaste da sole- ma non fartelo scappare ché è proprio un bravo ragazzo e si da tanto da fare..anche in casa”. È considerata una delle virtù più preziose, soprattutto dalle donne di una generazione in cui gli uomini non si occupavano della casa e dei figli, ma avevano un ruolo più o meno legittimato di padre padrone. È considerato un grande pregio, forse un po’ meno raro, per le ragazze oggi lavoratrici e madri, che non sono più abituate al compagno mammone; o per lo meno non lo scelgono. Eppure, ancora, gli uomini in casa lavorano meno delle donne.
Italia in coda alla liste d’Europa
È torinese uno degli ultimi studi usciti sul tema, “Quello che gli uomini non fanno” un saggio di Lorenzo Todesco, sociologo all’Università di Torino, che presenta il quadro sul lavoro domestico e di cura in Italia, confrontata con altri paesi d’Europa. E l’Italia non ne esce a testa alta. Viviamo nel Paese con la più forte diseguaglianza di genere nella suddivisione del lavoro in casa (ultimi dopo la Spagna), con le donne che occupano il 200% in più di tempo degli uomini per la famiglia: 5h20 al giorno, confronto alle 3h42 delle svedesi.
Fa tutto la donna
Secondo la ricerca “La divisione dei ruoli nelle coppie” che l’ISTAT ha elaborato nel 2010 (dati 2008-09) nella coppia italiana si occupa del lavoro familiare la donna nel 98,9% dei casi, mentre il 24% circa degli uomini non vi dedica nemmeno 10 minuti; percentuale che sale al 31% se la partner non è occupata. Scendendo nel dettaglio, le donne svolgono indifferentemente tutti i tipi di attività, mentre gli uomini sono più selettivi e il 41,7% di quelli collaborativi cucina, il 31,4% partecipa alle pulizie, il 29,9% fa la spesa e quasi nessuno lava e stira. È prevalentemente maschile invece il lavoro di manutenzione della casa e dei veicoli o la cura di piante e animali. Secondo la ricerca di Todesco, gli uomini si impigriscono in famiglia, abbandonando anche quelle attività che da single svolgevano quotidianamente. È quella che il sociologo definisce “ideologia di genere”, per cui le donne si devono occupare dei lavori in casa con abnegazione per rispondere alle aspettative sociali trasmesse da famiglia, scuola, mass media.
Con i figli la diseguaglianza cresce
L’asimmetria peggiora se in casa ci sono bambini. Chi si occupa dei figli? I papà hanno imparato ad occuparsi della prole, anche se il loro impegno è ancora minore rispetto a quello delle mamme, soprattutto i primi anni. Secondo i dati ISTAT, il 65,8% del lavoro di cura è a carico delle donne lavoratrici, che sale al 75% se la madre è disoccupata. Nelle coppie con almeno un figlio fino ai 13 anni, le donne gli dedicano mediamente 2h13 al giorno, mentre il padre 1h35; lei per il lavoro di cura e lui prevalentemente per le attività ludiche.
Decostruire i modelli, ma trovarne di alternativi
Nel paleolitico il mondo era donna e vigeva il matriarcato, con tutta la sua potenza riproduttrice. Con il neolitico e il passaggio da nomadismo a sedentarietà, la società è diventata patrilineare, forte della scoperta che era il seme dell’uomo a creare vita. Solo il ’68 e tutti i movimenti femministi hanno messo in crisi questa visione del mondo e della famiglia, urlando nelle piazze la parità dei ruoli. Una parità che -evidentemente- non è ancora raggiunta. Qual è il problema? Forse si è messo in discussione il modello tradizionale; ma non è stato definito il modello alternativo. L’uomo “deve” essere casalingo, ma deve anche “poter” essere casalingo. Questo, secondo alcuni sociologi, significa che la donna deve permettere al compagno di acquisire sicurezza e conoscenza: va decostruito il modello di maschio lavoratore non domestico, ma anche quello di donna unica e indispensabile educatrice e casalinga; vanno creati e concessi i presupposti per un uomo nuovo, errori di percorso inclusi.
I bimbi cercano cose diverse da mamma e papà
Da quanto emerge dalla ricerca “La paternità: una funzione in disuso?”, promossa qualche anno fa dalla Consigliera di parità della Regione Piemonte, i bimbi e le bimbe hanno bisogno che ci sia distinzione nei ruoli genitoriali. È necessario e auspicabile che i papà passino con loro tanto tempo quanto le mamme; ma è altrettanto vero che la modalità dello stare insieme deve essere diversa. A ognuno il suo, con lo stile e le competenze di ciascuno, ritrovando l’identità di padri e madri presenti.
Gli strumenti per la parità
Non cambierà mai nulla senza gli strumenti e le politiche adeguate. L’Italia deve recuperare tanto rispetto ai cugini europei, ma alcune iniziative cominciano timidamente a farsi sentire, in un paese in cui la cura è ancora intrinsecamente declinata al femminile. La legge 53/2000, voluta da Livia Turco (purtroppo “questa legge non è stata voluta dai padri, commentava la Ministra, ma è l’esito di un lungo processo del movimento femminile”) ha facilitato la riorganizzazione dei tempi delle famiglie e i modelli lavorativi. Sono stati introdotti i congedi parentali (astensione facoltativa dal lavoro) anche per i papà; ha sollecitato regioni e comuni per la revisione dei tempi delle città e ha promosso sperimentazioni per la conciliazione sul luogo di lavoro.
I congedi per i papà
In Italia sono 7 papà su 100 quelli che chiedono il congedo parentale (si possono chiedere 6 mesi di permesso, salvo eccezioni, con un’indennità del 30% della retribuzione); quando in Svezia erano 77 su 100 già nel 2007. Anche i papà che chiedono l’allattamento sono pochissimi. Il problema, secondo gli stessi papà, è innanzitutto economico (“lei guadagna meno quindi meglio se continuo a portare i soldi a casa io”), anche quando la donna ha un ottimo impiego. È di tipo culturale, perché gli uomini hanno paura dello sfottò dei colleghi e perché comunque si sentono solo complementari alla compagna nel lavoro di cura, non autonomi o indispensabili.