“Ci ho messo nove mesi per accettare di girare Il Piccolo Principe, nove mesi in cui ho capito che il percorso della mia vita mi aveva portato esattamente qui, a dirigere questo film”. Così Mark Osborne, già regista di Kung Fu Panda, apre il suo intervento sul palco di View Conference 2015, principale evento italiano dedicato al cinema digitale e alla computer grafica. Il film sarà nelle sale italiane a gennaio 2016, ma il percorso che ha portato alla nascita de Il Piccolo Principe è iniziato quasi sei anni fa.
Cosa ti ha convinto ad accettare? “Appena mi hanno proposto di portare il libro su grande schermo ho risposto che non era possibile. Poi ho trovato una mia fotografia di quando avevo cinque anni, quasi una premonizione: indossavo un cappello da aviatore e tenevo una telecamera in mano. Ho iniziato a pensare a tutte le volte che Il Piccolo Principe ha incrociato la mia vita, al profondo significato che aveva per me. Continuavo a pensarci, finché ho realizzato che il film sarebbe stato girato anche senza di me, ho capito che il mio compito sarebbe stato quello di proteggere il libro e così ho accettato.”
Hai dovuto affrontare una sfida: come si porta al cinema il Piccolo Principe? “Volevo onorare questa storia e soprattutto il significato che aveva per me. Non mi sono fatto spaventare dalle parole di Hayao Miyazaki: è un diamante, non lo si può rovinare con un film. Ho cercato diverse fonti di ispirazione, dalle sceneggiature scritte e mai tradotte in film da Orson Welles alle ambientazioni di Mon Oncle di Jacques Tati. Alla fine sono tornato alla mia idea iniziale, arricchita da tutte le ricerche fatte: raccontare l’esperienza della lettura del libro, senza fare del male alla storia. Ho iniziato a scrivere il racconto di una bambina che incontra per caso la storia del Piccolo Principe. Una bambina un po’ particolare, con una madre piuttosto opprimente. Sì, la bambina vive in un mondo ordinato e programmato dalla madre, la storia che le arriva su di un aeroplanino di carta, lanciato dal vecchio aviatore che abita accanto a casa sua, è destinata a cambiarle la vita. Abbiamo realizzato una città perfettamente squadrata e ordinata, rotta solo dall’abitazione dell’aviatore, vecchia, cadente, decisamente originale. Anche le tecnologie utilizzate diventano elementi narrativi. Durante i miei studi ho lavorato molto con la tecnica dello stop-motion e poi ho approfondito la computer-generated imagery, in due e tre dimensioni. Ho pensato che fondere le diverse tecnologie avrebbe permesso di distinguere anche da un punto di vista visivo la storia della bambina da quella del libro, che lentamente entra nella sua vita. Così abbiamo usato la CGI per il mondo della piccola protagonista, mentre i personaggi e le ambientazioni del libro sono realizzati in carta e animati con la tecnica dello stop-motion.”
Hai pensato a un pubblico specifico girando il film? “Quando faccio un film, lo faccio per gli esseri umani, non per adulti o bambini. Come il libro, anche il film ha diversi gradi di lettura, legati anche all’età di chi lo guarda. Capita spesso che quando un genitore legge la storia al figlio, il bambino lo guardi e gli chieda “Perché stai piangendo?”. Vorrei che il mio film avesse lo stesso effetto e, una volta usciti dalla sala, potesse diventare un’occasione di dialogo tra generazioni.”
[Luca Indemini]