Caratteristica tutta italiana: la parola “riciclaggio” è associata a “denaro sporco” e non, come in altre nazioni, all’ecologia, la qual cosa (caratteristica sempre italiana) è associata troppo spesso al “si dovrebbe fare” e non all’impegno concreto da parte di ciascuno. A ricordarci le tonnellate di immondizia solida che produciamo (per quella gassosa ci sono le domeniche a piedi) ci sono gli inceneritori lungo la tangenziale, ma anche i cassonetti e le sigle su flaconi, bottiglie e confezioni varie. Purtroppo non è sempre intuibile il significato delle varie combinazioni di lettere che compaiono nell’esagono (o nel cerchio) che specificano in quale cassonetto va smaltito il materiale riciclabile. Proviamo a fare chiarezza, partendo dalle sigle più semplici. ACC significa acciaio, VET vetro, CAR carta. Tutto abbastanza ovvio. Passiamo alle materie plastiche. PET indica il PoliEtilenTereftalato, un poliestere che fonde a temperature relativamente alte (sopra i 250 gradi centigradi) e viene comunemente riutilizzato. La sua temperatura di transizione vetrosa è però di soli 74 °C e quindi le bottiglie in PET non possono venir sterilizzate e riutilizzate come si faceva una volta con quelle di vetro. PP è il PoliPropilene. È utilizzato per i piatti di plastica lavabili in lavastoviglie: fonde a 160 °C e questo impedisce ai piatti di sciogliersi dentro l’elettrodomestico. PVC significa che il nostro oggetto da riciclare è fatto di PoliVinilCloruro, una celebrità nel mondo della plastica. Di PVC sono fatti i tubi degli scarichi e le grondaie, le tende da doccia e gli impermeabili: il PVC infatti è impermeabile. Inoltre il PVC, come dice il nome, contiene cloro e questo inibisce la combustione, per tal motivo resiste abbastanza bene al fuoco. PE, infine, indica il PoliEtilene, il polimero probabilmente più diffuso al mondo. Ci si fanno i sacchetti dei supermercati, le bottigliette per lo shampoo, i giocattoli per bambini e anche i giubbotti antiproiettile. Questi sono solo esempi di materie riciclabili che si potrebbero definire “del passato”. Oggi l’industria e la ricerca scientifica sono impegnate a realizzare prodotti per un nuovo sistema di chimica ecosostenibile, chiamata comunemente “chimica verde” (“green chemistry” per gli anglofoni). Certo, si potrebbe obiettare che gli unici prodotti veramente “verdi” sono quelli che non si producono: così come le uniche automobili veramente “ecologiche” sono quelle che non vengono né prodotte, né vendute, né utilizzate. Ma è altrettanto vero che il nostro sistema sociale ed economico funziona in un certo modo. E allora viva la chimica verde. Ricerca e industria si stanno impegnando in due campi. Prima di tutto “riprogettare” le vecchie tecnologie riducendo gli aspetti inquinanti, minimizzando gli scarti e il consumo di energia, utilizzando composti meno inquinanti (per esempio i reagenti) e privilegiando le fonti rinnovabili. In secondo luogo si cerca di ottenere le sostanze necessarie alla vita quotidiana con procedimenti totalmente nuovi e a basso impatto ambientale. La ricerca più all’avanguardia si impegna a ottenere le “nuove molecole” e i “nuovi materiali” attraverso procedimenti studiati in modo da arrivare alla produzione su grande scala con un impatto ambientale il più basso possibile. Italia ed Europa lavorano su una comune piattaforma tecnologica: una rete di industrie e centri di ricerca che si propone l’impegno congiunto per una chimica sostenibile e che si chiama SusChem, da Sustainable Chemistry. Non c’è dubbio che questa nuova sostenibilità sia anche (o forse soprattutto) una questione di business per l’industria, ma per noi cittadini è una tra le tante possibilità di un futuro non troppo grigio.
Sai cos’è la chimica sostenibile?
Un sito che spiega, giocosamente, i polimeri di tutti i tipi. Ottimo per le scuole.
it.wikipedia.org/wiki/Chimica_verde
La voce “Chimica Verde” sulla enciclopedia libera Wikipedia.
www.unibo.it/Portale/Ricerca/suschem.htm
La Piattaforma Tecnologica ItSusChem.
[Ugo Finardi – Chimico, ricercatore CNR]