Solo pochi tra noi sono davvero multitasking: viviamo nella società del switch tasking, ossia facciamo più cose in rapida sequenza. Ma attenzione: non fa bene al cervello né all’umore
Si resta a bocca aperta nell’assistere a uno spettacolo di Vanni De Luca, mnemonista e attore, che ha elevato la capacità di multitasking – o switch tasking – a livelli estremi e stupefacenti.
Così, in un suo numero, De Luca è in grado di recitare un canto della Divina Commedia scelto a caso dal pubblico, a memoria e perfettamente, e in contemporanea svolgere dei calcoli complicatissimi risolvendo pure un cubo di Rubik. Multitasking estremo, che tutti noi vorremmo possedere, anche in misura minore. Ma è una questione di allenamento o dono innato?
Dispiace dirlo, ma sembra che sia una capacità innata e, al contrario di ciò che si pensa, un appannaggio di pochi.
Infatti, solo una piccola percentuale della popolazione, inferiore al 3%, ha un cervello davvero multitasking, ovvero è in grado di processare informazioni e svolgere compiti contemporaneamente in modo efficace e senza fare errori.
Eppure l’essere multitasking è ormai una capacità di cui vantarsi, nonostante la consapevolezza dello stress che ci provoca. Ed è pure una soft skill molto valorizzata in ambito lavorativo, nonché un allenamento necessario per portare avanti l’organizzazione della famiglia. Ma è davvero un’abilità a cui vale la pena ambire?
Un falso mito
I test e gli studi delle neuroscienze sul cervello e il multitasking hanno dimostrato che la maggioranza di noi non è, appunto, multitasker. Quello che è vero è che ci comportiamo e organizziamo il lavoro credendo di esserlo.
Inoltre, dalle ricerche emerge che i cervelli multitasker non hanno sesso: quindi no, le donne non sono più portate al multitasking degli uomini. L’amara verità, per tutti, è che quando facciamo più cose contemporaneamente, in realtà non ne stiamo svolgendo bene nessuna.
Le reazioni rallentano (se stiamo guidando e parlando al telefono, ad esempio), aumentano gli errori, siamo meno precisi e dimentichiamo pezzi. Il risultato? L’operato può non soddisfare le nostre attese e questo genera frustrazione e senso di inadeguatezza.
Meglio parlare di switch tasking
Cucinare mentre si manda una mail, e in contemporanea assistere un figlio nei compiti, controllare i giochi del secondo figlio e pensare a cosa manca in frigo.
A chi non è capitato, e chi non si è mai sentito un/una invincibile multitasker? Un’illusione bella e buona, perché in realtà si tratta semplicemente di “switch tasking”, ovvero: non agiamo in contemporanea ma in rapida sequenza.
Frazioniamo le cose da fare e procediamo, come in una partita a ping pong, tra una faccenda e l’altra, cercando di recuperare i dettagli importanti lasciati indietro. Il rischio? Perdere pezzi e in particolare lucidità.
A tutto questo si aggiunge anche una sorta di dipendenza dal multitasking: siamo assuefatti dall’abitudine di dover sempre fare più cose simultaneamente e fatichiamo a liberarci da questa tentazione. Quanto resistiamo in un luogo in attesa senza “fare nulla”?
Fa male al cervello
Una cosa è certa: il multitasking, o meglio lo switch tasking, negli ultimi anni ha peggiorato la nostra qualità di vita, in particolare dopo la pandemia, in particolare laddove i confini tra gli ambiti personali e professionali spariscono.
Il nostro cervello può sopportare fino a un certo punto, e il rischio di tirare troppo la corda e piombare in un burnout, da cui poi è lunga riprendersi, è alto.
Gli effetti del switch tasking sono ormai evidenti: stanchezza cronica, nervosismo, irascibilità, disturbi del sonno, disequilibrio emotivo, buchi di memoria. E non solo: uno studio dell’Università del Sussex ha dimostrato che riduce anche l’empatia verso il prossimo.
Non basta? Dall’università di Stanford arrivano altre brutte notizie: lo switch tasking, se legato in particolare alla distrazione tecnologica, riduce la produttività – e questo già lo immaginavamo – e anche l’IQ, con un calo di 10 punti in media.
La distrazione di massa
L’unica notizia positiva, per sentirci meno in colpa, è che possiamo attribuire buona parte della causa alla società di oggi, che sembra progettata per distrarci.
Le diagnosi di deficit dell’attenzione e iperattività infatti, sono in aumento in tutte le fasce d’età, anche tra gli adulti. Tutte le ricerche in corso portano per ora a una conclusione: nelle società occidentali siamo passati dal decennio dell’ansia all’epoca del ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder).
Quindi, come sostiene Emma Beddington, giornalista del The Guardian, “nell’era della distrazione di massa, se non abbiamo altra scelta che continuare a destreggiarci tra ogni aspetto della nostra vita, possiamo almeno smettere di eroizzare il processo”.
E ammettere quindi, che, tra un’attività e l’altra, dovremmo prenderci una pausa sana, scegliere poche cose da fare e farle bene. Praticare esercizi di mindfulness per recuperare un pochino dell’attenzione perduta, e rimandare a domani ciò che non è necessario fare oggi.