Il pianto emotivo del neonato rispecchia un malessere collegato alle memorie del periodo della gravidanza e del parto: ecco cosa dicono le neuroscienze
Mangiare, dormire, piangere: sono queste le attività principali dei nostri bebè. Piangono spesso, e piangono molto. Non potendo comunicare in altro modo le loro sensazioni di fame, sonno, fastidio, o altro, i neonati utilizzano il pianto come modo di comunicarci i loro stati d’animo. Attraverso il pianto, i bambini e le bambine cercano di farci sapere come stanno e quali sono i loro bisogni e i loro moti interiori.
Nuove chiavi di lettura affettive
Il pianto è quindi un modo per veicolare messaggi di fame, sonno, disturbo o fastidio di qualche tipo: caldo o freddo, dolori addominali, coliche, difficoltà legate dunque a uno stato corporeo.
Ma non solo. Negli ultimi tempi si è diffusa una nuova e più ampia chiave di lettura del pianto, che prende in considerazione non solo i bisogni fisici dei piccolissimi ma anche cause più emozionali e affettive. Il pianto è quindi il modo del bebè di farci sapere che ha bisogno di una carezza, di un contatto fisico, di un movimento dolce e rasserenante. E portando la teoria ancora oltre il “qui e ora”, tra le possibili cause del pianto dei neonati ci potrebbe essere il disagio emotivo collegato alle memorie del periodo gestazionale e, soprattutto, della nascita.
La memoria dei neonati
Contrariamente a quanto si è pensato per moltissimo tempo, i neonati sono creature di finissima sensibilità, con una memoria, una capacità percettiva e una profondità del sentire ben oltre ciò che ci si immagina normalmente.
Lo confermano le ricerche nell’ambito della psicologia prenatale che, a partire dagli anni Settanta, hanno aperto un campo di indagine e di studio dai risultati stupefacenti. Risultati che ci conducono in un viaggio alla scoperta del pensiero umano fino agli albori della coscienza, al periodo gestazionale.
Da questi studi emerge che il bebè è un essere senziente, autocosciente, in grado di esperire la realtà in modo profondo già dalla gravidanza. Il suo vissuto in utero e al momento della nascita diventa perciò un momento fondamentale nella sua esperienza emotiva, in grado di generare una prima forma di imprinting nella lettura della realtà stessa da parte del neonato.
Un’esperienza emotiva condivisa
L’esperienza del parto e della nascita non è un momento emotivamente intenso solo per la madre (e per il padre!) ma genera emozioni altrettanto intense nel bambino o bambina che nasce. Emozioni che possono essere sia piacevoli che spiacevoli, e più o meno dolorose. In particolare, il momento del parto è particolarmente critico, a rischio di complessità e complicanze.
Un parto difficile non lo è solo per la donna, ma anche per il bambino/a che potrebbe sperimentare emozioni molto intense di paura, dolore, un senso di abbandono, di inadeguatezza, di fallimento, di disorientamento, di estrema fatica legata alla sensazione di non avere la forza, le risorse, per liberarsi dalla morsa del canale del parto.
Un nodo da sciogliere
Nella nostra cultura, mediamente, non si ascrive ancora ai neonati la giusta capacità percettiva e sensitiva, per cui gli intensi vissuti emotivi legati ai primissimi e delicati momenti non trovano corrispondenza negli adulti di riferimento.
Un parto difficile ci porta a dare sostegno alla madre, ma troppo spesso non viene considerato, accolto, ascoltato e sciolto il nodo emotivo che potrebbe essersi generato nei piccoli. Eppure, quel vissuto può essere presente e vivo. E il neonato potrebbe cercare di comunicarcelo con gesti, posture, tono corporeo, sguardo, mimica facciale, vocalizzi, pianto.
Memoria corporea
Alcune parti del corpo del bambino potrebbero essere più attivate di altre: la testa, il collo, le spalle, per esempio possono essere punti dove la memoria corporea immagazzina l’esperienza dolorosa vissuta. Può succedere, ad esempio, che mettendo e togliendo una maglietta stretta al neonato, inizi a piangere in modo intenso: la memoria corporea, implicita, potrebbe essere sollecitata e riportare nel qui e ora le emozioni vissute al parto. Si tratta in questo caso del pianto di memoria, un pianto emotivo, suscitato da episodi ai nostri occhi poco significativi, che potrebbero risvegliare però nel bambino la memoria implicita del corpo, che conserva l’esperienza precoce, generando primi elementi di risonanza con le esperienze post natali.
Il pianto di memoria accade quando nel bambino/a si risveglia il vissuto emotivo perinatale a causa di uno “stimolo d’innesco” collegato alla memoria stessa della nascita. Si distingue dagli altri tipi di pianto poiché in genere è inconsolabile, associato a gesti ripetuti come ad esempio spingere le gambe, inarcarsi, grattarsi o sfregarsi.
Come consolare questo pianto?
Quello che i genitori possono fare in questo casi è assumere la prospettiva del bambino e fornire quel rispecchiamento che può farlo sentire accolto, compreso, non da solo a vivere qualcosa di più grande di lui e sciogliere le memorie.
Potremmo per esempio dire qualcosa come: “Sembri spaventato, vedo che sei in difficoltà. Forse questa maglietta sulla testa ti ha ricordato quanto è stato difficile nascere. Ora è tutto finito, io sono con te. Vedrai che pian piano passerà tutto”.
Potrebbe sembrarci “ridicolo” rivolgerci con queste parole a un neonato, perché non siamo abituati a pensare che possa comprenderci o provare emozioni così intense. Ma queste credenze, legate alla visione del bebè come tabula rasa, sono ormai superate.
Le neuroscienze e le ricerche nel campo della psicologia prenatale ci portano nuove conoscenze e ci invitano a considerare i piccoli, dal concepimento in poi, come persone che provano sentimenti profondi e in grado di percepire in modo fine la realtà. Sta a noi rivedere le nostre convinzioni, riportare con consapevolezza il nostro sguardo e dare pieno diritto di cittadinanza emotiva (e non solo) ai bambini ed alle bambine appena nati.