Impariamo ad attendere

da | 7 Mag, 2014 | Lifestyle

Sono soprattutto gli insegnanti che sollevano il problema: chiamano a colloquio i genitori perché non riescono a gestire l’iperattività e la disattenzione dei bambini a scuola, con gravi implicazioni sul rendimento e sulle relazioni con i coetanei. Perché molti bambini sono così poco capaci di contenere l’impulsività? Perché stare attenti è diventata una fatica intollerabile? “Il termine ‘attenzione’ deriva da ‘attendere’ – spiega Sabrina Marzo, psicologa e psicoterapeuta – e l’attesa è proprio l’esperienza di cui oggi i bambini sono stati derubati. Nel percorso di crescita i bambini incontrano adulti che si prodigano per farli felici, provvedendo ai loro bisogni talvolta ancora prima che vengano fatte le richieste. La felicità e il benessere del bambino si fanno coincidere con l’assenza di frustrazioni, l’assenza di rinunce, l’assenza di ostacoli nel realizzare i desideri. I limiti e le regole diventano un intralcio in questa rincorsa a cercare di donare ai propri figli tutto il possibile, e subito!”. Perché aspettare Pasqua per aprire l’uovo? Perché desiderare che arrivi Babbo Natale quando te lo posso comprare subito? Ci si può chiedere se il tempo d’attesa che abitualmente intercorre tra un desiderio e la possibilità di realizzarlo sia proporzionale al tempo in cui quel bambino riuscirà a stare attento in classe. “Gli insegnanti si ingegnano per rendere le lezioni interessanti e catturare l’attenzione, – continua Sabrina Marzo – ma non si può insegnare se gli allievi ascoltano solo ciò che è gratificante e interessante nell’immediato. Non c’è da stupirsi se in un tale scenario sociale una delle sindromi più diffuse tra i bambini e i ragazzi, con livelli di disagio da lievissimi a molto gravi, sia proprio quella che viene chiamata Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività, talvolta indicato anche con la sigla DDAI o ADHD. In psicologia è classificato come uno tra i più comuni disturbi evolutivi dell’autocontrollo. Si presenta e colpisce principalmente due grandi aree: quella dell’attenzione e quella del movimento”. Il bimbo iperattivo ha un eccessivo livello d’attività motoria o vocale, gioca in modo rumoroso, parla tanto e non controlla l’intensità della voce, interrompe le persone che stanno conversando, trova difficile rimanere attento o lavorare sullo stesso compito per un periodo di tempo adeguato. A scuola fa ‘errori di distrazione’ e consegna lavori incompleti e disordinati. Spesso è agitato, fa fatica a rimanere seduto: più parti del corpo si muovono disarmonicamente, senza fine preciso. Quando gli si parla direttamente sembra che non ascolti o che abbia la testa altrove; si distrae con facilità anche per suoni o stimoli irrilevanti. Alle carenze a livello attentivo si sommano quelle relative alla capacità di pianificare l’esecuzione delle attività, di gestire il materiale scolastico e di rimanere orientati verso il compito”. Con l’ingresso nella scuola primaria, l’incapacità di rispettare le regole genera feedback negativi da parte dei compagni, da cui i bambini sono visti come poco collaborativi, oppositivi e prepotenti. “Tali situazioni fanno insorgere difficoltà relazionali nel gruppo dei pari e con il tempo contribuiscono a un’immagine negativa di sé, a una bassa autostima e a far accrescere la rabbia nelle relazioni che il bambino tenta di instaurare”. La gamma dei disturbi è ampia, non sempre ugualmente preoccupante. Ma, se si ha un figlio iperattivo, negare che esista un problema è un errore. “Il primo mito da sfatare è che con l’età il disturbo scompaia: anzi, evolve e si trasforma. Le nuove sfide scolastiche e sociali, se non accompagnate da un adeguato supporto, vedono il bimbo prima, l’adolescente e poi l’adulto, sconfitti. La gestione del comportamento di un figlio iperattivo è faticosa e il genitore viene assalito dal timore di non farcela. Ci si scontra con i tentativi falliti di far rispettare le regole, con la frustrazione di non avere riscontri positivi a fronte di tanta fatica. Il genitore, non comprendendo la reale difficoltà del figlio, passa dal ‘lasciarlo sfogare’ alle punizioni severe, per poi arrendersi di fronte alle azioni educative fallimentari, passando così in modo ipercinetico (lui stesso) da un’ipotetica soluzione all’altra. Tale contesto d’incertezza non fa altro che aumentare l’ansia, sia negli adulti che nei bambini. Gli insegnanti sono disorientati e rischiano di adottare strategie generiche, non sempre adeguate. Per aiutare il bimbo servono tempo, costanza e le indicazioni di un esperto, fondate su un’accurata valutazione delle risorse attentive ed emotive. Bisogna sempre ricordare che i comportamenti che sembrano inadeguati e sfidanti non sono frutto della volontà del bambino. Senza conoscenze adeguate si innesca la ‘ricerca del colpevole’: gli insegnanti segnalano ai genitori il comportamento inadeguato e i genitori, sentendosi giudicati, rimbalzano la responsabilità sulle carenze professionali degli insegnanti. In tale contesto il bambino è lasciato sempre più solo. La comprensione è fondamentale, così come la valutazione precoce dell’entità e specificità del problema, per intervenire prima possibile, sin dall’età della scuola d’infanzia”.

[Isa di Re]

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