Da un lato le aride cifre. Il rapporto Istat sulla natalità della popolazione in Italia nel 2011 registra dati contrastanti: diminuiscono i nuovi nati (15.000 in meno rispetto al 2010) e aumenta l’età delle mamme: nel 2011 quasi il 7% dei pancioni era over 40. Cresce anche l’età in cui le donne decidono di avere il primo figlio: in media 31,4 anni, contro i 29,8 del 1995. Non parliamo poi dei matrimoni, sempre meno. Nel 2011 sono convolate a nozze 204.830 coppie, 12.870 in meno rispetto all’anno precedente e anche in questo caso, il sì arriva sempre più tardi: l’età media degli uomini è 34 anni e quella delle donne 31. Numeri non proprio incoraggianti, ma neppure sorprendenti se si pensa agli strani giorni che l’Italia sta vivendo. Numeri il cui elemento distintivo sembra essere uno: il senso d’attesa, quasi d’immobilità. Una sensazione che si fa viva in tanti settori, in primis quello occupazionale. È il ritratto di una gioventù non giovane, paralizzata dentro e fuori, che aspetta, aspetta, aspetta. A guardare indietro, a ripensare alle famiglie in cui siamo cresciuti, negli anni ’70 e ’80, il balzo è stato notevole. Qualcuno ricorderà quei tempi folli in cui il matrimonio era un passaggio obbligato (419.000 matrimoni celebrati nel 1972), un traguardo a cui seguivano i figli. Vero è che, tra queste due Italie molto differenti, quella delle cifre sconfortanti e quella del bel tempo che fu, tra incudine e martello, c’è chi cerca il compromesso. Ci sono coppie che al matrimonio preferiscono la convivenza, che stanno insieme anche nelle condizioni più strane, che hanno deciso di avere dei figli quando il lavoro non c’è o è indeterminato, effimero, insicuro. Persone che vivono senza attenersi a un modello preconfezionato, da consumare ozianti davanti alla tv. Ragazzi che hanno voglia di condurre un’esistenza normale, nonostante tutto. Questa è la storia di Anna e Simone.
Galeotto fu El Salvador… “ho iniziato a considerare l’idea di una famiglia mia da un’ottica completamente diversa”.
Anna e Simone sono due ingegneri laureati al Politecnico di Torino. Lei con una tesi scritta a Oaxaca in Messico sulle tecniche di coltivazione del nopal (nota per chi si fosse perso l’ultimo numero di “Pollice verde in Centro America”: è una sorta di cactus commestibile ricco di fibre alimentari, vitamine e sali minerali), lui con una tesi realizzata in Guatemala sul recupero edilizio di un ex convento, occupato dai militari durante la guerra civile e poi trasformato in edificio comunitario. Ventenni fidanzati di fresco, a Simone e Anna piaceva ovviamente il divertimento. Lui ha la passione per la musica reggae e nel tempo libero mette i dischi con altri due compari alle serate più“off”, lei ama ballare nelle dance-hall e nei centri sociali con le amiche. Vivono gli anni d’oro della cultura alternativa torinese. Poi arriva il 2008 e tutto cambia. “Eravamo andati a convivere da qualche tempo in una casa in affitto – racconta Anna -. Lui lavorava in uno studio ma non era assunto, era una situazione precaria e, per di più, le attività di cui si occupava non lo entusiasmavano. A entrambi mancava l’America Latina. Abbiamo provato perciò a partecipare a un bando per un progetto sull’acqua del Servizio Civile Internazionale in El Salvador: ho vinto uno dei posti disponibili, lui no ma ha deciso di seguirmi come volontario. Zaino in spalla, siamo partiti”. Arrivati a San Salvador, la capitale, l’esperienza vissuta da Anna e Simone si fa dura ma intensa. Si devono occupare del recupero dell’acqua piovana attraverso la costruzione di cisterne in una comunità che non ha accesso a una rete idrica per l’assenza di acquedotti. Il lavoro è complesso, a livello tecnico e anche umano. “Circondato da persone che, pur non avendo nulla, erano non solo felici (il che può sembrare assurdo per noi), ma perfettamente in grado di organizzarsi per mandare avanti una casa con il poco a disposizione – dice Simone – ho iniziato a considerare la prospettiva di una famiglia mia da un’ottica completamente diversa. Sapevo che Anna era la persona giusta per me, quella con cui avrei fatto dei figli. L’esperienza in El Salvador è stata la molla: ho capito che non si potevano più fare pensieri del tipo ‘aspettiamo di metterci a posto, di avere un appartamento nostro, un lavoro fisso’, perché lì c’era gente che allevava figli avendo zero. Noi avevamo l’età giusta (io 28 anni, lei 27), in Italia due famiglie disposte a darci una mano. Quando Anna, negli ultimi mesi del nostro soggiorno all’estero, ha espresso il desiderio di diventare mamma, le ho subito risposto: “Ok, proviamo”.
Un colpo di testa programmato. Meglio aspettare o no per realizzare i progetti importanti della nostra vita?
Il rientro in Italia è stato un ritorno alla realtà ma, in fin dei conti, neppure così crudo. “Appena arrivati, nel novembre 2009, eravamo euforici: io ero incinta, stavo entrando nel terzo mese – racconta Anna -. Dovevamo dare la bella notizia a parenti e amici e c’era un clima di super-eccitazione. Dovevo andare in ospedale a fare le analisi e i controlli del caso, perché fino a quel momento non avevo fatto nulla. Parlo di euforia perché, ripensandoci adesso, se fossimo dovuti rientrare senza alcuna prospettiva in Italia, probabilmente saremmo stati più depressi. Oggi c’è chi parte per l’estero e non torna più. Invece l’idea di diventare genitori ci ha gasato e nulla sembrava impossibile”. Simone tiene a precisare: “Sì, è stato un colpo di testa, ma studiato. Da ingegneri. Abbiamo provato a rimanere ‘incinti’ proprio quando il nostro rimpatrio era imminente, così da avere la possibilità di prenderci il tempo che serviva per organizzarci. Abbiamo cercato prima una soluzione per la casa e, alla fine, siamo andati a stare dove abitava una mia nonna mancata da tempo. Certo, non era un loft modernissimo ma, man mano, lo abbiamo arrangiato bene. Nelle valutazioni che si fanno prima di metter su famiglia, sono convinto che molti miei coetanei debbano fare la tara tra la situazione familiare,
il supporto che può dare, e quello che possono costruire nel futuro. Se non capisci la fortuna che hai in casa tua o se la conosci ma non la sfrutti, e aspetti e aspetti a realizzare i progetti importanti della vita, allora significa che stai sbagliando qualcosa. Non bisogna attendere di avere un incastro ideale di cose per agire, tanto il momento perfetto non arriva mai”.
E alla fine… Lucia. Da coppia a genitori di una splendida bambina.
Dopo la casa, la seconda questione che i futuri genitori devono sistemare è quella del lavoro. Anna, mentre è incinta, è molto attiva e tiene dei laboratori su tematiche green nelle scuole. Simone decide di dare una svolta alla sua carriera da ingegnere edile: apre la partita Iva e diventa libero professionista, così da mantenere un controllo sul tempo e dedicare più attenzioni alla mamma prossima ventura. “Non c’era da scialare – dice Simone – ma non mi sono mai pentito delle scelte lavorative. Ci ho guadagnato in salute”. Il tempo vola, El Salvador sembra ieri e, tutto a un tratto, a maggio 2010 arriva Lucia, la primogenita. “Nonostante l’aiuto di tutti – confessa Anna – è stata molto dura, perché non ero veramente pronta a quello che una neo mamma deve affrontare e, soprattutto, non ero abituata a chiedere aiuto ai genitori. I primi tempi, quando Lucia era appena nata, ho letto un sacco di libri, di tutti i generi, da quelli più classici ai più fricchettoni. Alternavo un metodo all’altro, per esempio provando un po’ l’allattamento a richiesta e un po’ il sistema a orario, senza ottenere grandi risultati. E poi Lucia dormiva poco”. “I primi dieci mesi da genitore sono stati effettivamente i più duri – concorda Simone – tutto cambia, l’organizzazione gestionale della famiglia, il planning quotidiano gira tutto intorno al bebè. Quello che ci si mette un attimo a focalizzare è che, dopo anni in due, improvvisamente si è in tre e ogni azione è rivolta verso questo nuovo arrivato. Si litiga spesso a causa della stanchezza o per questioni logistiche. Sembra uno scherzo ma sono cose che logorano la coppia se non si sta attenti. Dai dieci mesi in poi la strada comincia a essere leggermente in discesa”.
Fare figli è la cosa più bella e allo stesso tempo la cosa più difficile
“Fare figli è strano – dice, a un certo punto, ispirato Simone – perché è allo stesso tempo la cosa più bella e la cosa più difficile che può capitare. E normalmente se una cosa è bella non è difficile e viceversa. Quindi essere genitori, per me, è un’ambivalenza strana. Per questo (ora Lucia ha tre anni) ho detto ad Anna: siamo in ballo, balliamo ed è così che abbiamo deciso di fare un secondo figlio”. In questo momento Anna è incinta di otto mesi e la gioia per l’arrivo del secondo (un maschietto) è tangibile nei volti comunque un po’ stanchi. Alla domanda se sono spaventati dal futuro rispondono sicuri: “No. Perché non abbiamo aspettative troppo pressanti riguardo al lavoro, viviamo il nostro tempo con la certezza che non moriremo di fame, ma che l’idea di benessere di qualche anno fa va ridimensionata, per tutti. Se no si rischia un corto circuito. E poi siamo contenti di formare una famiglia numerosa e insegneremo ai nostri figli che la felicità va al di là del possedere delle cose”.