Dieci parole giuste, il vero abracadabra dei genitore. Da usare con i figli, ma anche con il partner, i suoceri e i colleghi
La relazione cresce nella comunicazione. Lo sappiamo noi genitori che siamo esperti a riconoscere l’importanza dei “no” e il valore assoluto di rispondere alle domande dei bambini (anche quando sono spiazzanti, sfinenti o scontate). Sappiamo anche stimolare il dialogo profondo, uno strumento prezioso col quale possiamo indagare i sentimenti più nascosti.
Fin qui tutto bene. Ma nella pratica? Chi non è vittima di conflitti a fuoco con i figli quando l’argomento di discussione è la gelosia tra fratelli, la necessità di staccarsi dal telefonino, l’ennesimo giocattolo da comprare, il gelato a tre gusti più panna prima di pranzo?
La soluzione è avere in tasca delle armi, ovviamente pacifiche. quali? Parole. Parole capaci di disinnescare il conflitto, parole potenti, il vero abracadabra del genitore.
Nei momenti di tensione, se non si è preparati, si finisce per rimanere feriti. Meglio attrezzarsi, imparare queste parole e farle proprie, esercitandosi a sostituirle piano piano al nostro vocabolario fatto di reazione più che di azione.
Uno: “Capisco”
“Capisco che il muro era uno spazio bello grande su cui scrivere, ma non va sporcato. Cosa possiamo fare per costruire un tuo spazio di disegno?”
“Capisco che tuo fratello abbia divorato l’ultima fetta di pizza e tu sia arrabbiata. Hai diritto di esserlo”.
Iniziare il dialogo descrivendo ciò che si osserva in quel preciso momento, senza aggiungere un giudizio, permette al bambino di capire che stiamo cercando di comprendere la situazione.
È come mettersi in stand-by per un attimo e ragionare. Questo fase permette di aprire il dialogo, insegna ai bambini che in una situazione conflittuale ci si guarda e si riflette, invece di reagire a bomba. Partire con un “NO!”, in qualunque dialogo, è il più grande ostacolo che possiamo mettere in campo.
Due: “Quello che so io è che…”
I bambini non dicono sempre la verità. A volte si tratta di invenzioni talmente evidenti che ci verrebbe solo voglia di urlare “Stai dicendo una bugia!”. Questo però li metterebbe in immediata difensiva, chiude la discussione con un broncio che potrebbe durare ore.
Applicare il nuovo vocabolario evita tutto questo. Ricordiamo che i bambini vivono negli anni del “pensiero magico” e dello sviluppo del cervello. Non è una giustificazione, certo, ma serve tenere a mente che non abbiamo davanti dei bugiardi cronici. Rispondiamo osservando ciò che vediamo : “Ciò che vedo è che nella spazzatura ci sono delle verdure”. “Ciò che so è che avevo chiesto di raccogliere i giocattoli”. Questo fa ripartire il discorso da un dato oggettivo ed evita una reazione a catena di altre bugie.
Tre: “Mi piace guardarti quando…”
“Che bello guardarti mentre giochi con tua sorella”. “Adoro osservarti mentre dipingi”. Comunicare ai bambini che sono nel nostro sguardo, che amiamo osservarli mentre fanno le loro attività, li aiuta a sviluppare una visione positiva di loro stessi. Sottolineare un momento sereno, esprimendo verbalmente il benessere di quella situazione, li aiuterà a costruire relazioni e dialoghi positivi, ricchi divertimento.
Quattro: “Allo stesso tempo”
Questa frase è un jolly! Provate a sostituire qualunque “ma” e “però” e sarete stupiti di quanto facilmente può proseguire il discorso. “Tesoro mi piace la tua energia, al tempo stesso saltare sul divano non è possibile”. Oppure: “Vedo che sei furiosa, allo stesso tempo non posso lasciarti picchiare tua sorella”.
La parte di discorso che comunichiamo prima di dire “allo stesso tempo” può coesistere con quella che segue. Entrambe hanno legittimità e i bambini lo comprendono. Quando invece pronunciamo “ma” e basta, il nostro cervello lo interpreta immediatamente come qualcosa di negativo. Il “ma” complica le conversazioni già ricche di tensione.
Dicendo: “Ti voglio bene, ma”, oppure: “Mi fa soffrire vederti così, ma” si esplicita che il bene che vogliamo non è incondizionato oppure che non possiamo partecipare totalmente alla tua sofferenza. Il bene che un genitore vuole a un figlio deve essere “senza se e senza ma”.
Cinque: “Raccontami. Aiutami a capire”
Utilizzabile soprattutto nelle liti tra fratelli o amichetti, a turno si può chiedere loro di raccontare il proprio punto di vista, anziché intervenire con una assunzione di significato.
Fermare un problema domandando: “Coraggio, raccontatemi a turno cosa stava succedendo” è certamente più produttivo che affrontare la divergenza dicendo: “Ma siete impazziti!”. Il genitore che, pur sapendo in linea di massima quale sia la difficoltà, chiede di esser messo al corrente è un genitore che risulta imparziale.
“Dimmi come hai fatto a rovesciare la tazza!”. non va bene. “Dimmi” è un imperativo che ci raggela. Pur sapendo di essere in errore, immaginate il vostro capo che vi interroga in questo modo.
Sei: “C’è bisogno”
E’ il miglior sostituto di “Devi”. Quando vogliamo insegnare ai nostri figli a svolgere un’attività, “devi” suona come un comando e i nostri bambini, che amano affermare la propria persona, sono campioni di resistenza. Dire “C’è bisogno” è indubbiamente più morbido. Coinvolge il bambino in un’opera che lo riguarda. “C’è bisogno che i giocattoli siano raccolti mentre io raccolgo la biancheria” produce più facilmente un’attivazione anziché una chiusura.
”C’è bisogno che ti lavi le mani, è pronto” è una comunicazione neutra, non mette l’accento su chi la pronuncia. Non è il volere della mamma che causa l’interruzione del momento di gioco, ma è la situazione stessa, il fatto che in tavola c’è già il cibo.
Sette: “Mi spiace”
Insegnare ai bambini che tutti commettiamo errori permetterà loro di comunicarci anche i propri. “Mi dispiace” non è un segno di debolezza, è l’ammissione che anche noi siamo umani. Comunicando le nostre imperfezioni, consentiamo ai bambini di non dover dire bugie quando si infilano in qualche pasticcio.
Gli sbagli fanno parte della vita, insegniamo che anche nelle relazioni bisogna chiedere scusa, che le amicizie possono soffrire momenti di difficoltà e che si riparte sempre dalla stessa parola: scusa.
Otto: “Grazie”
In accoppiata con “scusa” la parola “grazie” dovrebbe esser pronunciata altrettanto spesso. Così come a noi piace esser apprezzati professionalmente, ricordiamoci che i bambini “lavorano” giocando. “Grazie per aver aiutato tuo fratello nelle costruzioni”. “Grazie per aver prima messo i libri nello scaffale prima di aver preso i colori”. Sono frasi rafforzative di un atteggiamento che vogliamo si ripeta nel tempo. Mattoncini di apprezzamento che fungono da pietre miliari.
Nove: “Cosa pensi si possa fare?”
Aiutare i bambini a pensare alle possibili soluzioni è fondamentale, anche di fronte ai più terribili disastri. Anziché: “Lascia stare, non pulire, faccio io!”, oppure: “Zitti, avete litigato abbastanza! Decido io i turni” usiamo frasi del tipo: “Cosa pensi si potrebbe fare per riparare la tazza rotta?”. “Cosa pensi si possa fare perché ciascun giochi e si diverta?”.
L’importanza di questa comunicazione è che in ogni frase si prevede che il bambino compia due azioni: prima pensare e poi fare. Che è esattamente l’ordine delle azioni da svolgere per trovare una soluzione: riflettere per pianificare e poi agire.
Dieci: “Ti voglio bene”
Le tre parole più potenti del mondo. Nonostante gli errori, magari anche tanti, i bambini devono sapere che nulla li allontanerà dal nostro affetto. L’amore di un genitore non è mai condizionato, è gratuito e perenne.
Anche quando non troviamo le parole giuste o non interveniamo nel modo adatto (e questo accadrà perché siamo umani e fallaci) l’amore compenserà i nostri errori.