Bilingui. Bambini con mamma e papà di nazionalità diverse. Oppure bambini monolingue che crescono in contesti sociali nuovi, come succede nelle famiglie immigrate o emigrate. Il piatto della bilancia che misura gli aspetti positivi o negativi del parlare due lingue fin dalla nascita si è definitivamente inclinato verso il sì. Crescere bilingui è una fortuna, oltreché una ricchezza. E’ una risorsa che favorisce lo sviluppo su più piani: cognitivo, linguistico e culturale.
I benefici del bilinguismo
Conoscere due o più lingue aiuta a vivere meglio in un mondo sempre più globalizzato, questo è evidente, ma ha anche effetti profondi sulla mente. Gli studi neurolinguistici più recenti evidenziano che il bilinguismo migliora la capacità di astrazione e rende più flessibili, perché insegna fin da piccolissimi ad applicare strategie diverse di pensiero. E’ vero che si può sperimentare qualche confusione all’inizio, ma verso i 4 anni i bambini sanno districarsi perfettamente tra le lingue a cui sono stati esposti. Può succedere che in questo periodo utilizzino un vocabolario ridotto, ma anche questo problema si risolve con la crescita. E nel complesso i vantaggi sono rilevanti e durano per tutta la vita. Creatività, memoria, percezione, capacità di concentrazione, fiducia in se stessi, attitudine a capire gli altri e a decidere in tempi brevi, precocità e capacità di portare a termine compiti complessi: sembra che i bilingui godano di tutto questo, per il solo fatto di aver addestrato il cervello a funzionare sul doppio binario. Sembra anche che conoscere due lingue allontani il rischio di Alzheimer e di altre malattie degenerative tipiche della terza età, come la demenza senile.
Bilingui madrelingua
Crescere bilingui è dunque una fortuna. Ma se i genitori sono entrambi monolingue e vivono in un contesto sociale ben definito? L’arricchimento può avvenire comunque. L’importante è sapere come e quando farlo. A promuovere il bilinguismo è la stessa Unione Europea, che lo stimola anche laddove non cresca spontaneo. Il progetto Socrates, famoso per aver dato vita agli ormai consolidati scambi Erasmus tra studenti universitari, si articola con proposte rivolte a tutte le fasce di età, dalla primissima infanzia fino agli anziani. Abbiamo inoltre la fortuna di non vivere in un contesto linguisticamente piatto. Sulla scala di uno specifico indice, il Greenberg Diversity Index, che misura, paese per paese, la probabilità che due abitanti condividano una stessa lingua, l’Italia esce bene. Sul nostro territorio si parlano 33 lingue diverse. Certo, non siamo a livello delle 830 lingue correnti degli abitanti di Papua Nuova Guinea, la nazione che è di gran lunga la patria della diversità linguistica, ma siamo meglio di Cina, Stati Uniti, Germania, Spagna, Francia, Australia e Giappone. Siamo già morigeratamente multilingue.
Quando si apprende un linguaggio?
Prima si impara, meglio è. L’apprendimento nella prima infanzia è naturale e privo di sforzo, perché da 0 a 3 anni il cervello è settato soprattutto per imparare a parlare. Intorno ai 2 mesi il bimbo comincia a selezionare i suoni che ascolta più di frequente (l’italiano ne ha circa 30) e conclude la sua opera verso i 5 anni. A 6 anni il bambino si esprime in modo corretto, dimostrando una competenza linguistica paragonabile a quella di un adulto. L’evoluzione si completa intorno agli 8 anni: sono questi i termini per lavorare su una lingua “madre”. Dopo è tardi e tutto diventa più difficile.
La scelta della seconda lingua
Se a livello di “ginnastica cerebrale” va bene l’apprendimento di qualsiasi lingua, è evidente che il “working language” su cui è meglio puntare è l’inglese. Non conviene sovrapporre più di due lingue: il bambino riesce a destreggiarsi, ma nell’insegnamento ha molta importanza che sia sempre la stessa persona che parla la stessa lingua; in questo modo è più facile l’orientamento e il bambino riesce a capire dove finisce una parlata e dove comincia l’altra. Se si è superata l’età d’oro non è obbligatorio arrendersi. L’importante è non imporre mai la seconda lingua. Bisogna cercare di trasformarla “in una relazione” utilizzando tutti gli stratagemmi possibili. Bene dunque frequentare amici che parlano lingue straniere, bene iscriversi a società sportive che prevedano trasferte di squadra all’estero, bene cercare una buona scuola di lingue, bene iscriversi a un vero summer camp all’estero, la classica settimana di centro estivo con compagni di lingua diversa, a patto ovviamente che il bambino sia già in grado di comunicare i suoi bisogni primari. Ogni full immersion è utile, ricordando sempre, a se stessi e ai bambini, che conoscere una lingua non è solo cultura, è il modo migliore per aprirsi alla ricchezza della vita.
10 passi verso il bilinguismo
Cosa fare per cercare di attivare un bilinguismo non madrelingua di tipo familiare? Ne parliamo con Alda Trifiletti, specialista di glottodidattica infantile ed esperta del metodo Hocus & Lotus (www.hocus-lotus.edu) che si rivolge a bambini da 0 a 11 per insegnare le lingue in maniera naturale.
1) TEMPO ED ETA’. “Prima si inizia, meglio è. Si potrebbe dire che non è mai troppo presto. L’ideale è cominciare a esporre il bimbo alla seconda lingua a 11 settimane di vita”.
2) NIENTE TRADUZIONI. “Quando si espone un bimbo a una lingua bisogna bandire ogni tipo di traduzione. Sì a libri, cartoni, film in lingua, purché restino rigorosamente tali, senza sottotitoli, ascolti incrociati, spiegazioni”.
3) FATTORE RELAZIONALE. “La lingua si impara con l’affetto della famiglia e non esiste apprendimento senza legame affettivo. Quanto più viene condiviso con genitori, fratelli, sorelle e altre figure di riferimento, quanto più sarà accettato dal bambino”.
4) ESPOSIZIONE QUOTIDIANA. “Basta poco ogni giorno: video, cartoni, YouTube. Cantare, tanto. L’importante è esporre il bimbo ai suoni che rimarranno naturali e spontanei”.
5) RIPETERE. “La mamma e il papà insegnano al bimbo a parlare ripetendo con dolcezza mille volte le stesse parole. Vale la stessa regola anche per la seconda lingua”.
6) STIMOLI ESTERNI. “Iscriversi a una scuola di lingue in giovanissima età è un’ottima idea. L’età d’oro è quella prescolare. Per scegliere è meglio privilegiare i playgroup fondati sulla psicolinguistica invece che sulla linguistica. I bambini non sono adulti in miniatura e i metodi utilizzati per insegnare devono essere specifici per l’età”.
7) DISCUTERE GLI OBIETTIVI. “Quando si sceglie una scuola, chiarire gli obiettivi. Imparare qualche parola non è sufficiente: bisogna per esempio raggiungere la competenza per raccontare una storia in lingua”.
8) RAGAZZA ALLA PARI. “E’ perfetta: è un’esposizione quotidiana in un contesto affettivo. Il soggiorno di una au pair è sempre auspicabile”.
9) METODO. “Nei corsi di lingua non basta dire ‘gioco quindi imparo’. Occorre un metodo di insegnamento che va esplicitato e spiegato al genitore”.
10) PIU’ E’ MEGLIO. “Quanto più tempo si espone un bambino alla lingua, quanto migliori saranno i risultati. La scuola di lingue va benissimo assieme al genitore come minimo una volta a settimana. Se si iscrivono i figli a un asilo nido o una scuola bilingue, è bene che almeno il 50% delle ore di frequenza sia programmato in lingua straniera”.
Miti da sfatare
– I bambini bilingui iniziano a parlare più tardi degli altri. Ogni bambino inizia a parlare quando è pronto, esattamente come comincia a camminare. è vero che alcuni sperimentano un tempo più lungo, ma non succede sempre e comunque i vantaggi successivi valgono sicuramente l’attesa.
– I bambini mescolano le due lingue. Succede, ma anche questa è una fase passeggera.
– Un bambino non può crescere bilingue se i genitori hanno la stessa lingua madre. Falso! Anche un bambino che vive in contesto monolingua può crescere bilingue.
– Ci vuole molto impegno da parte dei genitori. E’ vero. Serve impegno e costanza da parte di tutta la famiglia.
– Se non si comincia alla nascita, è tardi. E’ sempre vero che prima è, meglio è, ma non è mai troppo tardi. Aspettare, paradossalmente, richiede maggior impegno che iniziare fin dalla nascita.