I nordici la chiamano “rush hour of life”, quel momento della vita delle mamme nel quale non si fa che correre, spesso perdendosi. Ne parliamo con un’economista e una psicologa per capire dove nasce questo affanno, cosa comporta e, soprattutto, come affrontarlo
Lo ha raccontato bene un film di qualche anno fa, Ma come fa a far tutto?, nel quale Sarah Jessica Parker, smessi i panni dell’amata Carrie Bradshaw, interpreta il ruolo di una mamma di Boston che corre sempre e, mentre è a letto, spunta lista di cose da fare, per poi dimenticarsene sistematicamente qualcuna. E addormentarsi sfinita.
Nei Paesi del Nord Europa si sono inventati un’espressione per definire questo senso di affanno e sfinimento: è la rush hour of life, quel momento della vita nel quale le mamme corrono senza sosta, con l’impressione di non potersi fermare mai. Senza arrivare mai. Nel film la storia è a lieto fine – e come potrebbe essere diversamente – ma non per tutte è così. Con conseguenze pesanti, sia a livello individuale che collettivo.
Una corsa improduttiva per tutti
“In italiano non esiste ancora una traduzione esatta per questo concetto che, non a caso, arriva dagli studi di genere del Nord Europa, lì dove la consapevolezza su certi temi è maggiore”, ci spiega l’economista Azzurra Rinaldi, Direttrice della School of Gender Economics all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza. “La rush hour of life è quel senso senso di corsa, e di urgenza nella corsa, con cui fa i conti chi ha tra i 30 e i 45 anni e ha figli o responsabilità di caregiving in generale”. È quel vortice nel quale ci si perde tra impegni di lavoro, cura dei figli, della casa, della coppia, supporto ai genitori anziani e, se rimane qualcosa, anche di sé stesse. Quella sensazione di essere sempre al posto sbagliato, di non lavorare bene o abbastanza, di non essere il genitore che si vorrebbe o dovrebbe essere.
“Una corsa – sottolinea Rinaldi – che è fisica e molto concreta e ha risvolti di natura economica perché interviene in quella fascia di età nella quale le donne potrebbero essere massimamente produttive, avendo ormai acquisito sufficiente maturità ed esperienza professionale”. E invece? E invece, in moltissimi casi, dal lavoro se ne vanno. Lo confermano i numeri: nel 2021, le persone che in Italia hanno dato volontariamente le dimissioni erano nel 73% dei casi donne madri e il 65,5% di loro lo ha fatto per la difficoltà di conciliare lavoro e impegni di cura. “Se ne vanno o, nella migliore delle ipotesi, si mettono a part-time perché non ce la fanno più a correre. E perdono, spesso per sempre, quei treni che permetterebbero loro di agganciare la crescita professionale, e che difficilmente torneranno”.
Il danno per la collettività è enorme: vale – aveva stimato già nel 2013 la Banca d’Italia – almeno 7 punti di Pil nazionale, quelli che avremmo in più se in Italia lavorasse il 60% delle donne (oggi siamo intorno al 50%, con fortissime disparità tra Nord e Sud). A risentirne è anche la natalità tanto che il 40% delle mamme italiane – secondo il rapporto 2023 di Save The Children “Le equilibriste” – dichiara di non volere altri figli “perché troppo faticoso”.
Prima ancora, però, la ferita è personale e porta le donne a dover far i conti con un senso di inefficacia costante.
L’impatto psicologico
“Questa ‘fatica’ al femminile è molto diffusa e spesso è connotata da pensieri sulla propria capacità personale che portano le mamme a dire: sono io che non ce la faccio. Ma – premette Giovanna Gorla, psicologa e psicoterapeuta, socia fondatrice di EduCare APS (elinoreducare.org) – ci sono vincoli di contesto dei quali non possiamo non tenere conto”. A partire da quelli collegati a welfare e politiche familiari, inadeguati oggi in Italia a sostenere i bisogni reali delle famiglie. O, sul piano culturale, la convinzione radicata tutt’oggi che il lavoro di cura debba ricadere principalmente sulle donne. Ci sono poi i cambiamenti della società, che hanno segnato negli ultimi decenni il passaggio dalla famiglia allargata a quella nucleare e che – in assenza di servizi strutturati – lasciano molti genitori soli, privi di una rete sociale di supporto. Infine, le aspettative esterne e quelle che le donne stesse hanno interiorizzato su se stesse, a cominciare da quella di dover “arrivare sempre dappertutto, e di arrivarci bene. Il rischio è cadere in un circolo vizioso: più non ce la fai a stare dietro a tutto, più ti senti stanca, più le energie si riducono e il senso di efficacia personale si indebolisce ulteriormente rendendo difficile individuare altre risorse”.
Una questione di aspettative, tempo e…
Che fare, dunque, mentre continuiamo a correre come un criceto sulla ruota? “Viviamo in un tempo complesso, nel quale al singolo è richiesto molto – e alle donne anche di più. Questa sensazione di non riuscire ad arrivare, di essere sempre un po’ in rincorsa e affollati di ‘cose da fare’ è condivisa. Ma possiamo chiederci: e se ce ne stessimo mettendo troppe, di cose? Sia a livello individuale che familiare – suggerisce la psicologa – ha senso fermarsi ogni tanto, ascoltarsi per capire cosa ci fa stare bene e cosa no, cosa può essere cambiato, cosa è davvero importante per noi e cosa, invece, si può lasciare andare. E mettere in discussione l’idea che il ‘riuscire a fare tutto’ sia necessariamente la soluzione, pensando che può esserci anche un altro modo di vivere”.
… coppia
In questo contesto, un ruolo fondamentale lo gioca chiaramente l’intesa di coppia. “Quanto più i due partner lavorano come un piccolo team, quanto più riescono a essere solidali e a condividere il carico della cura, tanto più può essere facile riuscire a stare dietro a quanto viene richiesto a ciascuno e alle mamme in modo particolare. Altrimenti – dice Gorla – diventa davvero una mission impossible”.
Fermarsi ad ascoltare i bambini
Anche perché la “corsa” rischia di coinvolgere anche i figli, “che spesso ci rimandano le nostre fatiche nel prenderci del tempo per capire come stiamo e che significato diamo ai nostri stati d’animo e per riuscire a ‘stare nelle relazioni e nelle situazioni’. Ciò – spiega ancora la psicologa – si traduce spesso in una difficoltà di concentrazione per i bambini e nella nostra nel contenerli e aiutarli a gestire i loro stati d’animo. Osservare, ascoltare, stare vicino richiede tempo ed è difficile farlo se si è sempre presi nel vortice delle ‘cose da fare’. Un suggerimento pratico può essere quello di prendersi un tempo per organizzare bene le giornate, evitando di preoccuparci di quello che dobbiamo fare mentre viviamo le situazioni quotidiane. Spesso, infatti, alla fatica reale dei tanti impegni quotidiani, si aggiunge la fatica del pensare a quante cose abbiamo da fare. Questa ulteriore preoccupazione ci impedisce di essere ‘presenti’ in quello che facciamo. E questo avvia un altro circolo vizioso dal quale può essere difficile uscire”.
Rinunciare al lavoro? Meglio più asili nido
Eppure, se il fattore “tempo” è così determinante, la soluzione non è certamente quella di trovarlo togliendolo al lavoro delle donne. Smettere di lavorare o lavorare meno – sempre che ci si possa permettere di farlo – “può dare un apparente sollievo iniziale perché sembra che si smetta di ‘correre’, ma in realtà riduce soltanto l’autonomia personale ed economica riproponendo un modello femminile tradizionale, improntato all’idea del sacrificio, che contraddice ulteriormente l’idea di condivisione dei carichi di cura all’interno della coppia . È la soluzione che – conclude Gorla – più che risolvere, contribuisce a rinnovare il problema”.
È per questo che, al di là delle strategie personali, è nel sistema che va cercata una via di uscita. “In Italia – concorda l’economista Rinaldi – abbiamo una concezione di welfare familiare ‘mediterraneo’ per cui c’è sempre una donna che si occupa di tutto, che sia la mamma, la nonna o una tata e, invece, per abbattere questo senso di rush servono misure pubbliche di sostegno non alle donne ma alle famiglie, a partire da più asili nido, almeno in linea con i target europei (33% di copertura) ancora lontani per l’Italia, scuola a tempo pieno per tutti i bambini e servizi strutturati di assistenza domiciliare agli anziani”. È quello che – certifica ancora il rapporto di Save The Children – chiedono anche le mamme: asili nido gratuiti, assegno unico più consistente, piani di assistenza tarati su i bisogni effettivi delle famiglie, assistenza domiciliare pubblica per quando i bambini si ammalano e sostegno psicologico per le madri nei primi mesi di vita dei figli come soluzioni per iniziare a “correre” un po’ meno.