C’è un metodo che funziona per combattere il bullismo

da | 21 Feb, 2018 | Lifestyle

Forse, contro il bullismo, accuse e punizioni non servono. Forse funziona meglio entrare in empatia, non per difendere i bulli o sdrammatizzare la sofferenza, come verrebbe spontaneo pensare, ma per ottenere risultati veloci ed efficaci. Per far smettere le molestie ed evitare che si ripetano.

Cosa si fa in Svezia contro il bullismo

Un metodo applicato da trent’anni nei paesi scandinavi si concentra sulla riparazione del danno e pare ottenere risultati positivi. A inventarlo è stato uno psicologo svedese, Anatol Pikas, che lo ha chiamato “metodo dell’interesse condiviso”.

Seguendo il metodo, che ha un copione molto dettagliato, il bullo non viene accusato o colpevolizzato, ma gli viene richiesto di dare un contributo costruttivo e di suggerire una strategia per migliorare la situazione delle persone, comprese quelle che lui stesso ha molestato.
Pikas spiega il suo metodo partendo dal concetto di mobbing più che di bullismo. Il mobbing, in etologia, indica i comportamenti aggressivi adottati da certe specie di uccelli per difendersi da un predatore. Siamo abituati a riferirci al mobbing nel mondo del lavoro, ma sarebbe più corretto comprendere in questa categoria tutti i comportamenti violenti che un gruppo rivolge contro un suo membro, anche a scuola o in famiglia.
Il bullismo, al contrario, non fa riferimento al gruppo, ma si concentra sulla singola persona che attua comportamenti aggressivi. Secondo Pikas concentrarsi sul bullo è un errore: a rendere efficace questo tipo di violenza non è l’atto in sé, ma il contesto collettivo che si crea intorno, un contesto che non solo tollera, ma usa la violenza e l’umiliazione per divertirsi e rafforzarsi. Lo spettacolo del compagno bullizzato è accettato e voluto dal gruppo. Il bullo fa solo quello che il gruppo gli chiede.

Il metodo Pikas

Il metodo dell’interesse condiviso di Pikas, adottato nei paesi scandinavi da oltre trent’anni, ottiene ottimi risultati. È adatto ai bambini a partire dai 9 anni e comincia a diffondersi anche in altri paesi, come la Francia, il Belgio e la Svizzera, o l’Australia (potete leggere qui uno studio sull’applicazione nelle scuole australiane). Al momento sembra funzionare molto bene per i casi di molestie lievi e occasionali, mentre si sta studiando la sua efficacia nei casi di bullismo più grave.
Alla base del metodo dell’interesse condiviso di Pikas c’è un lavoro sul riconoscimento dell’ingiustizia e sulla costruzione di azioni riparatrici. Un insegnante, che ha fatto formazione e che sa come comportarsi, incontra privatamente tutti i protagonisti e ricostruisce con loro le dinamiche della prepotenza. Il suo compito è rendere riconoscibili i fatti per come stanno. Assieme agli studenti stabilisce il grado di coinvolgimento di ciascuno e invita a collaborare tutte le parti.

Il bullo, che non è altro che la punta dell’iceberg della dinamica di violenza, non viene punito e non viene giudicato. “La prima fase prevede degli incontri individuali tra intimidatori e insegnante, che adotta un atteggiamento empatico e che mostra preoccupazione per la situazione dello studente bersaglio del bullismo – scrive Il Post in un lungo e dettagliato articolo. – Chiede a ciascuno di descrivere che cosa è successo, e non appena viene riconosciuta la difficoltà in cui si è trovato lo studente bullizzato ci si chiede anche che cosa si possa fare per migliorare la sua situazione: i bulli sono dunque incoraggiati a diventare i soggetti che possono risolvere il problema che loro stessi hanno creato, e vengono messi in condizione di riparare ciò che hanno fatto. Le interviste sono brevi, seguono un copione di domande ben codificato e si rinnovano fino a quando i vari bulli non propongono soluzioni costruttive. E sono individuali per annullare l’effetto di gruppo, e per re-invidualizzare ciascuno dei membri. Per Pikas è molto importante non alterare la sequenza delle domande, non fare commenti e non cedere al desiderio di fare altre domande”.

La vittima del bullismo

L’attenzione diretta per la vittima arriva solo in un secondo momento, dopo che l’insegnante ha parlato con il gruppo dei molestatori. A quel punto la vittima viene informata degli incontri e dei suggerimenti che gli intimidatori stessi hanno proposto. Se la vittima è disponibile a incontrare i bulli in un incontro, si procede a mettere in pratica i miglioramenti proposti dal gruppo, con una serie di verifiche con i bulli e con la vittima fino a quando si può dire che l’intimidazione sia terminata.

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