Il 15 ottobre si celebra una ricorrenza particolare, il Baby-Loss Awareness Day, la giornata internazionale di chi ha perso un bambino durante la gravidanza o subito dopo il parto. In Italia questa particolare forma di lutto è quasi inesistente. È una perdita che trova difficilmente ascolto e che viene ignorata dalla maggior parte delle istituzioni, nonostante i problemi di chi la affronta e gli sforzi delle associazioni che se ne occupano.
Giulia, Riccardo e una storia vera
Cosa significhi la perdita “in utero” hanno deciso di raccontarlo Giulia e Riccardo.
“Ci siamo conosciuti a ‘un diciottesimo’, la festa di un’amica. Eravamo giovanissimi, ci siamo sposati presto. Due mesi dopo il matrimonio è arrivata la notizia del trasferimento di Riccardo verso il suo lavoro da sogno: disegnare turbine di aerei. Abbiamo puntato il dito sulla mappa, a caso, e abbiamo scelto il posto dove andare a vivere, perché della grande città dove ci saremmo trasferiti ancora non conoscevamo nulla”. Durante il trasferimento Giulia decide che non solo avrebbe cambiato città, ma anche lavoro. “Ero praticante in uno studio di avvocati ed ero stufa dello scarso rispetto con cui ero trattata. Mi chiamo Giulia, ma lì per tutti ero sempre Cristina, vai a sapere perché. A Pisa avevo fatto il servizio civile occupandomi di donne ammalate di cancro e questa esperienza mi ha segnato. Ero attratta dal tema della maternità. Ho deciso di cominciare a occuparmene professionalmente, prima come educatrice perinatale e poi come consulente del portare in fascia”.
Arriva la gravidanza
Giulia e Riccardo decidono presto di volere un bambino. “Ed è subito arrivato. Eravamo nella grande città, lontani dalle nostre famiglie di origine. Era la prima esperienza e avevo ovviamente l’idea che fosse giusto farsi seguire da un medico specialista, possibilmente maschio. A lui ho demandato totalmente la mia salute. Alla prima visita il medico ha capito che qualcosa non andava nel verso giusto, tuttavia non ci ha spiegato chiaramente cosa stava succedendo e ci ha rimandato a casa, con la raccomandazione di aspettare dieci giorni e poi prenotare un nuovo controllo”. Così siete tornati a casa. “Sì. Eravamo, se vuoi, inesperti e fiduciosi. Abbiamo trascorso un po’ di giorni, forzatamente, con il dubbio e il timore di portare avanti una situazione deteriorata, senza capire cosa significava e cosa sarebbe successo. Ricordo che eravamo molto spaventati. Dopo una settimana mi è comparsa la febbre e sono arrivati fortissimi dolori alla schiena. A me sembrava una situazione di allarme, così ho chiamato il medico, ma erano le cinque di pomeriggio e non ha ritenuto necessario visitarmi. Siamo andati a un pronto soccorso ostetrico, dove mi hanno guardata un po’ male e mi hanno chiesto se mi sembrava il caso di andare lì per una semplice febbre”. Poi però i medici capiscono che la gravidanza non sta procedendo bene e che la situazione ha una certa urgenza. “Un medico specializzando mi ha fatto un’ecografia che non saprei definire in altro modo se non paradossale. Non aveva fatto entrare mio marito. Mentre mi diceva che il feto era morto, parlava con un altro medico su come installare Instagram nel telefonino”.
Giulia esce dal pronto soccorso con la diagnosi di morte perinatale e mille emozioni. Incredulità, confusione, rifiuto, paura, rabbia e dolore, sia fisico che psicologico. Torna dal suo medico, che le prospetta di scegliere come terminare la gravidanza: un intervento chirurgico, possibile però solo a distanza di venti giorni, oppure la nuova opzione farmacologica.
La pillola RU486
“Ovviamente eravamo scioccati e non sapevamo cosa fare – racconta Giulia -. Aspettare così tanti giorni era fuori discussione, così abbiamo optato per la pillola RU486, il tipo di aborto farmacologico al quale si ricorre per l’interruzione di gravidanza precoce. La pillola è ovviamente usata anche nei casi di aborto volontario. Sono andata di persona a prenotare. Mi è stato chiesto cinquanta volte se era una interruzione volontaria, nel qual caso ho capito che sarei stata trattata diversamente, con ostilità e sfiducia. Ma neanche a me, che ero in una situazione emotiva ben diversa, è stata riservata una accoglienza felice. Nessuno mi ha detto neppure un ‘mi dispiace’. Mi hanno dato tre pasticconi che ho dovuto prendere sotto gli occhi di un addetto – il rischio che li portassi fuori per rivenderli o darli ad altre donne è contemplato – dopodiché mi hanno fatto andare a casa, dicendo di tornare dopo 48 ore”.
Il ricovero
Quale è il reparto per le madri in lutto? Questa domanda a volte non ha risposta, spesso per ragioni esclusivamente amministrative. In molti ospedali le donne colpite da morte in utero sono ricoverate in ostetricia, raramente in ginecologia, lontano dalle altre puerpere. La presenza di altre mamme con i loro bambini vivi può essere davvero penosa, ma anche la ginecologia non mostra sempre la necessaria sensibilità.
“Sono stata messa in camera con una donna che interrompeva la gravidanza per scelta – racconta Giulia -. Era madre di due bambini e aspettava un figlio a pochi mesi dalla nascita del secondo. Ammetto di aver provato nei suoi confronti, immediatamente, un po’ di rabbia, ma è subito svanita. Ho capito che le scelte sono sempre traumatiche, anche per chi le fa e non solo per chi le subisce. Ho capito che il rispetto è sempre dovuto, ma il rispetto non è contemplato dalle istituzioni: né lei né io siamo state accompagnate, né psicologicamente né fisicamente. In questo settore posso dire che si parla tanto di supporto alla vita, sì, ma è tutto finto. L’unica cosa vera che si sperimenta è l’assenza. Assenza di tutto: di accompagnamento, di presenza, di spiegazioni. E la mia compagna di stanza, oltre all’assenza ha dovuto anche confrontarsi con il giudizio e il senso di colpa”. In ospedale a Giulia viene dato un letto e le viene somministrata ossitocina. “Ho cominciato ad avere le contrazioni, ma nessuno è passato a dirmi niente o a chiedermi come stavo. Ovviamente, neanche in questo caso era possibile farsi accompagnare dal marito o da altre persone di fiducia. Che stessi male era contemplato come una parte della procedura. A fine giornata mi è stata fatta un’ecografia. Mi hanno detto che andava tutto bene e che mi rimandavano a casa, con la sola raccomandazione di prendere paracetamolo se sentivo dolore”.
Perché dopo una interruzione di gravidanza si prova dolore. “Sì, e tanto. E di tanti tipi diversi. Ma soprattutto quello che fa male è la disumanità. Il trattamento approssimativo con raccomandazioni generiche, nessun tipo di supporto alla ferita e alla perdita. Perdere un bambino, anche prestissimo, anche volontariamente, è comunque un lutto, ma questo lutto non è socialmente riconosciuto. Mi trattavano a grandi pacche sulle spalle, dicendomi ‘sei giovane, ne farai un altro, la prossima volta andrà meglio’. Con tutto il rispetto e la vicinanza per chi ha subito lutti più profondi: nessuno si sognerebbe di trattare così una vedova”.
La ripresa
C’è molto da discutere rispetto a come è recepita la maternità. Nel caso del lutto peritanatale è quasi un disvalore. “Finché un bambino non nasce, non esiste – dice Giulia –. È difficile che altre persone, oltre ai genitori, percepiscano il peso reale della perdita. Io ero così arrabbiata che non riuscivo a prendermi più cura di nulla. Tutti mi dicevano di smetterla di pensarci, di prenderla alla leggera. Nessuno mi ha consigliato quel che serve davvero: darsi il tempo necessario per elaborare. Per comprendere cosa avevo dentro, per riuscire a non vedermi come una persona lagnosa da curare con gli antidepressivi, è stato risolutivo l’incontro con un’ostetrica. L’ostetrica è una bellissima figura. Si avvicina alla madre, alla coppia e al bambino con un approccio olistico e con la capacità di visitare e ascoltare. Con lei ho imparato a prendermi cura di me e ad ascoltarmi. E a non delegare mai più ad altri che a me stessa la mia salute”.
CiaoLapo, un’associazione a sostegno delle mamme che perdono un bambino
A supporto delle persone che affrontano il lutto perinatale c’è un’associazione, CiaoLapo Onlus, che da undici anni sensibilizza e forma professionisti e volontari disponibili a offrire sostegno ai genitori e a collaborare con gli operatori sanitari e le aziende ospedaliere. La rete di CiaoLapo opera in varie città italiane, quasi sempre a titolo gratuito e in casi particolari con convenzioni a tariffe agevolate. Offre incontri di prima accoglienza, gruppi di mutuo aiuto e seminari rivolti alle aziende ospedaliere. Si trova all’indirizzo www.ciaolapo.it.