2010. Gennaio. Lunedì. Prima mattina. Accompagna i figli a scuola, all’asilo. Cappotto nero rosso bianco. Guanti grigi. Cielo plumbeo. Non vorrebbe piangere. In tasca, una penna stilografica e una busta rossa. Taxi bianco fino al tribunale. La separazione.
2017. Gennaio. Di nuovo lunedì. I figli sono a scuola. Cappotto grigio e rosso, a righe. Guanti rossi. Cielo latte. Una sensazione di tranquillità, una sfumatura di vuoto. In tasca uno scontrino di ieri. Taxi, sempre bianco, sempre destinazione tribunale. Il divorzio. Davanti all’edificio moderno mattoni rossi e vetrate fumé, c’è un parco pubblico, nuovo, alberelli piantati lontani uno dall’altro. Altalene, chioschi. Intorno, il traffico di tram auto bici persone rumore.
Caterina non si muove abitualmente in taxi. Ma in queste due occasioni sì. Per un motivo pragmatico: non vuole arrivare in ritardo, perdere tempo a cercare parcheggio, affannarsi. E per un motivo simbolico: il taxi le racconta un po’ quello che è successo, un viaggio iniziato e finito. Un prezzo da pagare.
2010. Il giudice sembra Babbo Natale, barba di neve, capelli bianchi e un ufficio polveroso in fondo a un corridoio stretto e corto, caldissimo, dove diverse coppie stringono i cappotti al braccio, chiusi nelle spalle, per non sfiorarsi i gomiti. Caterina sente arrivare lacrime di commozione, per la vita vissuta, semplicemente, più che per un preciso dolore. L’hanno deciso, sono convinti, ma è un passaggio delicato. Dal dolore puro erano già passati, negli anni appena trascorsi. L’uomo dal quale si sta separando, il papà dei suoi figli, firma la sentenza con un lieve tremolio nelle mani. Caterina firma con la stilografica.
2107. Il giudice è una donna, ha una giacca con un fiore di stoffa appuntato sul cuore, dita paffute, unghie ciliegia. Caterina e l’ex marito non si guardano mai, nessuno trema. Nessuno piange. Firmano con la biro del giudice.
2010. Quando escono, percorrono un tratto – lungo – di strada insieme. Parlano. Lei gli porge la busta rossa, dentro c’è una foto di quando si sono sposati e un grazie, un ciao.
2017. Quando escono, si salutano subito. Caterina si volta verso il parco e vede un alberello alto come lei, che si staglia contro il grattacielo che negli ultimi sette anni si è conquistato un posto in città. Non era lì nel 2010 e per un attimo le sembra la metafora di com’è cambiato l’orizzonte della sua vita in sette anni. Ma in realtà Caterina si sente più simile all’alberello: crescita lenta, braccia esili aperte al mondo, radicamento a terra. Scatta una foto. La manda al suo nuovo compagno, l’Atleta, che sta allenando altri piccoli atleti sugli sci e che le risponde: bella foto, amore, quando andiamo a cena in cima al grattacielo? Caterina sorride. E torna a casa.
[Marina Gellona]