Galeotto fu il libro, o meglio, i libri, perché in mezzo ai libri si sono conosciuti Hadil, traduttrice di origine siriana cresciuta nelle Marche, e Giuseppe, insegnante calabrese arrivato a Torino ai tempi dell’Università per studiare. È stato amore a prima vista: “Ci siamo incontrati alla Fiera del Libro nel 2010, dopo esser stati presentati da amici comuni: io seguivo il programma dell’associazione dei traduttori e mi spostavo da una conferenza all’altra – racconta Hadil -. Ho capito che era già amore perché lui veniva ad ascoltare tutti gli incontri in cui mi trovavo e si è addirittura perso la finale dell’Inter in campionato!”.
Dalla Siria alle Marche
I genitori di Hadil sono venuti a vivere in Italia negli anni Sessanta. Il papà ha studiato medicina, poi si è laureato, ha trovato lavoro a Macerata e lì sono rimasti. “La situazione oggi in Siria è bruttissima, per noi è molto penoso assistere da lontano a quel che sta succedendo e non poter far nulla. La nostra famiglia sta vivendo momenti duri: chi è rimasto vive con l’angoscia delle bombe che ti cadono in testa. Il mio cuginetto di 8 anni è morto l’anno scorso a Pasqua. Camminava per la strada con la madre ed è stato colpito da una bomba, una tragedia da cui i suoi genitori e tutti noi fatichiamo a riprenderci. Ma anche la parte della famiglia che si è spostata ed è andata nei Paesi vicini, in Egitto, in Turchia, non sta meglio: sono trattati da profughi, da rifugiati, costretti ad accettare qualsiasi lavoro per mantenersi. Erano persone benestanti che nel giro di pochi anni hanno perso tutto. Perché in Siria la cosa importante è la casa, avere una bella casa grande e accogliente in cui ospitare amici e parenti: è lì che si investono tutti i risparmi. E quando la tua casa crolla o la devi abbandonare, non ti resta proprio più nulla”.
Tre cerimonie
Finita la Fiera del Libro, Giuseppe è andato a casa dei genitori di Hadil per presentarsi. “I miei genitori mi hanno chiesto: ‘È italiano?’. ‘Sì’. ‘Ah’. Non erano proprio entusiasti all’idea. Anche se ormai parlano bene l’italiano, avrebbero preferito un ragazzo siriano, per tante ragioni: tradizioni cui sono attaccati, educazione, quotidianità. Dopo l’incontro mi hanno detto: ‘Lasciaci il tempo di abituarci all’idea’, e così abbiamo fatto: pochi mesi dopo stavamo già preparando il fidanzamento. Il rapporto con i suoceri in Siria è molto più formale: ad esempio, il genero non chiama la suocera per nome. Per mia madre è stato imbarazzante all’inizio sentirsi chiamare per nome, ma, consapevole che non era dovuto a una mancanza di rispetto, ha smesso di farci caso. Piccole cose, comunque, e tutte superate. Noi siamo musulmani osservanti e anche lui lo è: questo senza dubbio ha aiutato nel rapporto con i miei genitori”. Giuseppe si è convertito dieci anni fa, ben prima di conoscere Hadil, al termine di un lungo percorso spirituale: “è una cosa che senti dentro, una tensione verso l’alto. Rimettendo insieme tutti i pezzi del puzzle sono arrivato lì”, racconta Giuseppe. “Per me la religione era un tutt’uno con la tradizione, la vivevo nel quotidiano senza troppo rifletterci, mentre Giuseppe la vive intensamente. Il momento della preghiera è il momento di contatto con l’alto: ho molto imparato da lui, sotto questo aspetto”. “Il matrimonio per noi più vero è quello religioso, davanti all’imam, che recita la fatiha, la preghiera che lega una persona all’altra, che però qui in Italia non ha valore legale. Così alla fine le cerimonie sono state tre – raccontano -. Per primo, a ottobre, il kiteb, il matrimonio religioso, una piccola festa privata con i testimoni e pochi parenti. A marzo abbiamo celebrato il matrimonio civile a Macerata, con una grande festa. E poi a maggio abbiamo festeggiato un’altra volta in Calabria con tutti i parenti che non erano riusciti a venire nelle Marche: abbiamo fatto le cose sul serio, con le bomboniere e gli inviti, abbiamo rimesso i vestiti, una vera festa di nozze. Abbiamo notato che tante cose sono simili nelle nostre culture: il rispetto per la famiglia, il senso di ospitalità”.
Amore e rispetto
“In Siria generalmente i figli si fanno prima, intorno ai venti anni, quindi non abbiamo perso tempo per mettere su famiglia, mi sentivo già vecchissima – dice Hadil -. Il giorno in cui nasce un figlio cambia tutto. Ho provato una fortissima sensazione di felicità, di fiducia nel futuro. Certo che nel quotidiano è anche una bella fatica, Sirin e Dalia sono bambine vivaci e hanno solo 22 mesi di differenza, ma ne vale straordinariamente la pena. Giuseppe e io abbiamo idee molto simili nell’educazione dei figli: quello che ci accomuna è la fede e le regole che detta in merito. Per noi è importante la cura, l’essere presenti e spiegare cosa è bene e cosa no. Tentiamo di insegnar loro il rispetto per i genitori, un rispetto che si basa sull’amore e non sulla paura. Cerchiamo di parlare molto con loro, nonostante siano piccole. Chiaramente i risultati non sono sempre quelli sperati anche perché abbiamo delle figlie dal carattere molto forte. In particolare, avendo figlie femmine, provo ad alimentare in modo positivo la loro autostima, senza però concedere tutto. Vorrei che fossero fiere di ciò che sono”. In casa si parlano arabo e italiano, anche se per il momento le bambine non hanno tantissima voglia di cimentarsi con la lingua della mamma. “Quando le porto nelle Marche raccomando ai miei genitori di parlare solo arabo con loro – dice Hadil -. Abbiamo provato a far vedere loro i cartoni animati in lingua, ma ora si ribellano. Secondo me sono nella fase in cui stanno immagazzinando tutto, un giorno, spero, parleranno sciolte. Lo aspettiamo senza fretta”.
La quotidianità
“Mi sono trasferita a Torino dopo il matrimonio e mi trovo benissimo. Mi mancano i genitori ma non tornerei a vivere nelle Marche, mi piace la vita frenetica della città, con tante cose da fare, teatro, cinema, cultura. In casa si mangia un mix di cucina italiana e siriana; le bambine adorano quella siriana, Dalia soprattutto, ma sono piatti che richiedono una preparazione più lunga e ora mi manca il tempo. È una cucina che si basa su un piatto unico elaborato, che in genere si compone di una verdura cucinata in una salsa con della carne e accompagnata da riso bianco. Poi ci sono piatti tipici a base di bulgur, verdure e carne macinata, farciti di frutta secca come mandorle, noci, pinoli. A casa nostra si celebrano le feste musulmane, che però non hanno una data fissa e girano con il calendario lunare, ma Natale lo passiamo con i suoceri in Calabria, ed è tutto addobbato, tutto luminoso, la tavola imbandita, i regali: le bambine ne sono affascinate. Vorrei che capissero anche l’importanza delle nostre tradizioni, ma siccome siamo in pochi a festeggiarle qui in Italia, c’è meno atmosfera. Ora sono ancora piccole, ma Sirin ogni tanto quando usciamo mi chiede dov’è il suo velo, perché lo vorrebbe anche lei. Immagino comunque che per loro crescere in Italia sarà diverso da come è stato per me: io da ragazzina ero l’unica con il velo in tutta la scuola, nessuno sapeva molto della nostra cultura e al liceo le insegnanti mi facevano girare per le classi per raccontarla. Tutti ci facevano domande, ma con spirito aperto, senza pregiudizi, cosa che ora è molto cambiata. Adesso c’è un’idea diffusa, più o meno apertamente negativa, rispetto alla quale siamo sempre in posizione di difesa: tutto questo non crea conoscenza vera. Personalmente sono un po’ stufa di dover sempre difendermi e prendere posizione. Io e la mia comunità siamo costantemente chiamati in causa, ma perché devo andare a una manifestazione contro l’Isis? Io non ho niente in comune con atti feroci politicamente strumentalizzati compiuti da persone che sono lontane da me in tutto e per tutto. Io sono una cittadina italiana, nata in Italia, ho studiato in Italia e qui pacificamente vivo: cosa ho a che fare con loro? Ho invece molto in comune con le donne musulmane di seconda generazione, faccio parte di un’associazione di mamme: nel sociale mi impegno come posso, e volentieri. Torino è una città aperta, molto bella e mi trovo benissimo”.