Eliana e Stefano hanno due bambini, entrambi nati in Africa e arrivati in Italia attraverso l’adozione.
Si dice che l’adozione sia come una gravidanza che si sviluppa più nel cuore che nella pancia. Si dice che non duri nove mesi, ma tempi lunghi e indefiniti. Si dice che sia un incontro tra due mancanze: quella dei genitori che cercano un figlio e quella di un bambino senza genitori. Eliana e Stefano di adozioni ne hanno vissute due. Incontrarli oggi con Yakob e Catherine è emozionante: le difficoltà e la consapevolezza con cui hanno costruito la loro famiglia si sono trasformate in una confortante serenità. “Ci siamo conosciuti tantissimo tempo fa – comincia a raccontare Eliana – verso la fine degli anni ’80. Siamo nati e cresciuti nello stesso quartiere ed è stato frequentando gli stessi ambienti che ci siamo scoperti, poi fidanzati e infine sposati. Era il ’95 e Stefano studiava ancora”. Dopo il matrimonio è venuto naturale pensare ai bimbi. “L’adozione era un’idea che avevamo già prima del matrimonio – dice Stefano -, ma pensavamo che prima avremmo avuto qualche bimbo nato da noi. Tuttavia sono passati un po’ di anni e pur non essendo impossibile, i figli non arrivavano. La strada della fecondazione assistita non ci sembrava adatta al nostro modo di essere ed è stato così che è tornata alla luce l’idea di adottare un bambino”.
L’adozione è un percorso lungo e impegnativo. La legge ne prevede due tipi: l’adozione nazionale di minori residenti in Italia e quella internazionale di minori stranieri residenti all’estero. “Noi abbiamo fatto domanda per entrambe, anche se le probabilità per l’adozione nazionale sono minori. C’è più richiesta di percorsi di affido e, in attesa che si svolgessero le nostre pratiche, abbiamo provato anche questo”. Dal giorno della domanda al Tribunale di Torino sono passati cinque anni per l’arrivo di Yakob e quattro per quello di Catherine. “Non possiamo nascondere che il percorso sia impegnativo –continua Stefano – soprattutto nella parte in cui la coppia viene valutata per capire se possiede i requisiti richiesti dalla legge. Bisogna ricordare che l’adozione non è un diritto degli adulti, ma una opportunità per il bambino e che l’unico scopo è assicurare a ogni bambino una famiglia. Agli adulti è richiesto di dichiararsi disponibili e di lasciare che i servizi sociali accertino l’idoneità, valutando se la coppia è in grado di educare e di prendersi cura, affettivamente ed economicamente, di un figlio. Per noi il percorso di accertamento è durato due anni, al termine del quale abbiamo ricevuto il decreto di idoneità. Adesso i tempi sono più corti e di questa maggior velocità abbiamo beneficiato con l’adozione di Catherine, che ha richiesto un po’ meno tempo”.
Dopo il decreto di idoneità si sceglie l’ente o l’associazione che accompagna la coppia nell’abbinamento con il bambino. “Noi abbiamo incontrato l’Associazione Centro Aiuti per l’Etiopia che ha sede a Mergozzo e che si occupa anche di adozione a distanza e di altri progetti con i bambini. Ci ha ispirato simpatia e fiducia, abbiamo trovato un clima positivo, pieno di volontari che si danno da fare. Ci siamo messi in lista d’attesa e quando è arrivato il nostro momento… niente! L’Etiopia aveva avuto problemi di adozione, non con l’Italia ma con altri paesi. Circolavano voci terribili, bambini finiti in situazioni non chiare, per cui tutte le adozioni internazionali erano state sospese in attesa di una nuova legge che imponesse maggiori garanzie. Noi avevamo appena avuto un abbinamento informale con Yakob, che aveva all’epoca quattro mesi. E le adozioni erano bloccate, non si sapeva se si sarebbe proseguito né quando. L’incertezza è durata a lungo. Quando si comincia un percorso di adozione si mettono in conto la fatica e l’attesa, ma l’incertezza è difficile da sopportare. L’incertezza è dappertutto. Ci si prepara a fare i genitori ma non si sa come sarà il figlio in arrivo, magari un neonato o un ragazzo di otto anni, forse un maschio o forse una femmina. Rispetto a una nascita, in cui i tempi sono certi e cadenzati, l’incertezza è pervasiva e bisogna trovare un equilibrio non facile in cui pensare al figlio in arrivo, ma senza farne il centro della propria esistenza”. Però una coppia può indicare le caratteristiche del bimbo che pensa di adottare. “Nei colloqui si esprimono alcune preferenze e più o meno ci si può aspettare che l’abbinamento ci si attenga, ma è tutto molto approssimativo e mai sicuro. Basti pensare che in molti Paesi in via di sviluppo l’età che compare nei certificati non è certa, spesso l’atto di nascita viene ricostruito. In Etiopia, nello specifico, l’anagrafe non esiste, per cui è molto difficile sapere quanti anni hanno i bambini”. Il percorso di adozione è lungo e faticoso. Come fa una coppia a sopportarlo? “Come molti genitori adottivi abbiamo frequentato un gruppo di mutuo-aiuto. Spesso si costrui-scono naturalmente rapporti con le coppie che hanno dato il mandato alla stessa associazione. È importante avere a che fare con altre coppie: ci si conforta sui vissuti, si vedono i bambini che sono stati adottati, a volte si prova invidia”.
Riprendiamo dalla vostra storia: siamo arrivati al punto in cui l’Etiopia ha bloccato le adozioni, cosa è successo dopo? “C’è stato l’abbinamento informale con Yakob e ci è stato chiesto se eravamo disponibili. Ovviamente abbiamo risposto di sì, ma non avevamo altro che queste poche informazioni. Una settimana dopo siamo riusciti ad avere una foto. È stato un momento molto emozionante! Abbiamo aspettato sei mesi, poi l’Etiopia ha sbloccato la situazione delle adozioni. Sono passati altri sei mesi e il 25 aprile del 2004 siamo partiti per andare dal nostro bambino in un villaggio ad Addis Abeba che ospitava circa 130 bambini di varie età, tutti accolti in adozione. Yakob era uno dei più piccoli. Ci siamo fermati dieci giorni, un periodo breve ma intenso; la nostra fortuna è stata essere ospitati nello stesso centro in cui Yakob viveva, per cui lui non ha dovuto subire lo shock del distacco, mentre noi abbiamo avuto modo di vedere come aveva vissuto fino a quel momento. Dall’Italia siamo partiti in più coppie ed è stato bello fare il viaggio insieme, vivere insieme, costruire una comunità con tutti gli altri e i bimbi. Soltanto una settimana prima della partenza eravamo riusciti a organizzare un incontro. Ancora adesso ci incontriamo almeno una volta all’anno per l’anniversario: il prossimo anno si festeggerà il decimo”. Come è stato il ritorno? “Per nove anni abbiamo vissuto insieme senza figli eravamo un po’ spaesati, ma ben organizzati e anche fortunati con i tempi, perché Eliana aveva preso la maternità e io un mese di congedo parentale, poi sono cominciate le vacanze scolastiche e così abbiamo potuto trascorrere insieme i primi tre mesi. Di questo tempo una parte consistente è stata presa da pratiche burocratiche, a quei tempi l’iter post-adozione era più complicato. Dopo un mese siamo partiti per una vacanza, in giro a incontrare parenti e a presentare Yakob, ma anche un giro per stare insieme noi tre, per conoscerci”.
E poi è arrivata Catherine. “Non abbiamo mai avuto l’idea di avere un figlio solo, così, dopo qualche mese di assestamento con Yakob, abbiamo ricominciato tutto da capo. Ovviamente, essendo cambiata la situazione familiare, l’iter è ricominciato, perché questa volta non si doveva tutelare solo l’interesse di un bimbo, ma di tutti e due. Dopo aver avuto un nuovo decreto di idoneità avevamo intenzione di dare mandato alla stessa associazione di Yakob, ma proprio in quel periodo c’era una lista di attesa lunghissima e avevamo paura di perdere il decreto, che dura un anno. La Regione Piemonte aveva istituito un servizio di adozioni internazionali (l’Arai, Agenzia Regionale per le Adozioni Internazionali) che stava iniziando a operare anche in Burkina Faso, così abbiamo colto l’occasione: siamo stati la prima coppia a mandare il nostro dossier, ma l’attesa c’è stata comunque, perché non avevamo pensato che il percorso era tutto da costruire e l’Arai lo ha delicatamente costruito a partire dalla realtà nostra e delle altre tre coppie che hanno iniziato poco dopo. Forse è superfluo raccontare la gioia del momento in cui ci hanno abbinati a questa deliziosa bambina che aveva appena dieci mesi. Ne sono dovuti passare altri dodici prima di poterla andare a prendere. Abitava in un piccolo villaggio, non abbiamo potuto subito stare assieme che alcune ore, ma dopo tre giorni la direttrice del centro ha valutato che Catherine si sentisse abbastanza a suo agio per venire con noi a dormire in un albergo nella capitale. Catherine era molto spaventata, le eravamo estranei in tutto, nella lingua, nel colore, nei modi di fare. Yakob che era venuto con noi, piccino, faceva il secondo anno di materna e all’inizio, nonostante la curiosità, se ne stava molto sulle sue, ma la sua presenza è stata bella e preziosissima per accogliere Catherine. Dopo il ritorno in Italia siamo partiti per le vacanze e lì è cominciata la nostra nuova avventura. Yakob e Catherine hanno incominciato a interagire subito e bene, sono cresciuti insieme, oggi si cercano e si picchiano fraternamente come tutti i bambini, a scuola sono ben integrati, ai giardini sono scatenati come tutti gli altri. Abbiamo anche la fortuna di abitare in un quartiere multietnico, dove la scuola accoglie le storie dei nostri figli come una tra le tante e tali storie che compongono la classe, senza tabù e pregiudizi”.
E l’Africa? “Abbiamo in mente di tornare, ma aspetteremo che i bambini siano cresciuti ancora un po’ perché il viaggio abbia più significato. Per un attimo abbiamo anche pensato alla terza domanda di adozione, ma ci hanno fermato i servizi sociali, in parte spiegandoci che le difficoltà, con la crescita dei bambini, erano tutte da venire, e in parte perché di famiglie desiderose di accogliere un bambino ce ne sono tante. Ora tocca a loro”.
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