La scelta di Jumkit: dal Nepal all’Italia

da | 30 Mag, 2016 | Persone

Partire per un altro continente e lasciare il proprio figlio a casa, soffrire per la lontananza e struggersi di nostalgia, pur sapendo che questa scelta così sofferta ha come risvolto la possibilità di un futuro migliore per entrambi e l’emancipazione da un destino già scritto. È una scelta lacerante quella che Jumkit ha dovuto compiere, quando nel 2009 è partita dal Nepal per l’Italia con l’obiettivo di lavorare, studiare e garantire a suo figlio Nyima le possibilità che lei stessa non aveva avuto.

Un villaggio sotto il cielo

Sono nata in un piccolo paese a 3.400 metri di altezza in Nepal, nel distretto di Humla, al confine con il Tibet – racconta Jumkit -. La mia è una famiglia di contadini: si coltivano grani, patate e radici e si allevano cavalli, mucche, yak e asini. Il lavoro è molto faticoso perché la terra è dura, poco fertile. I miei fratelli e io abbiamo sempre aiutato i nostri genitori nel lavoro nei campi, ed era quella la mia prospettiva di vita. La svolta importante è stata quando ho deciso di andare a scuola: i miei genitori non mi ci avevano mandato, al contrario dei miei fratelli, perché pensavano fosse più importante per i maschi. Avevo ormai 13 anni. Ricordo di essere stata colpita dalla visione di un gruppo di ragazzine con la divisa della scuola, nel capoluogo del distretto: mi è venuta voglia di andarci anch’io. Papà e mamma all’inizio non erano d’accordo ma sono riuscita a convincerli. L’argomento migliore? Portare sempre a casa risultati ottimi! Ho iniziato la scuola nel mio villaggio, seduta a fianco di bambinetti di 5/6 anni e io ero già adolescente. Ma ho recuperato in fretta il tempo perduto, la scuola mi piaceva, studiavo bene e ho finito il percorso scolastico di base in 5 anni, invece dei 10 necessari, grazie anche alla collaborazione dei miei insegnanti che erano molto contenti del mio impegno e mi aiutavano volentieri nello studio. A 18 anni mi sono sposata: è stato un matrimonio combinato dai genitori a cui non potevamo sottrarci. Lui veniva da un altro villaggio, non lontano dal nostro e all’inizio vivevamo con i suoi genitori. Non è mai stata un’unione felice e col tempo abbiamo finito per divorziare, ma una cosa bellissima insieme l’abbiamo fatta, nostro figlio Nyima, che in tibetano vuole dire Sole”.

A Kathmandu, Nepal

Nyima nasce nel 2002 in ospedale a Kathmandu al termine di una gravidanza serena. “Un bimbo sano e grande, meraviglioso. Il matrimonio non funzionava, io avevo finito gli studi e volevo prendere il diploma e la laurea. Così mi sono trasferita in città e mio marito è rimasto a lavorare nel villaggio. Per mantenerci lavoravo e poi dovevo studiare, quindi i primi tempi sono stati davvero duri, per fortuna lui era un bimbo buono e tranquillo. All’inizio ci hanno dato una mano i miei genitori, ma poi hanno dovuto tornare a casa per occuparsi dei campi e degli animali. In città avevo poche amiche, ma anche loro lavoravano, quindi ero quasi sempre sola con Nyima. Studiavo a casa con lui e se dovevo uscire me lo portavo sempre dietro nel marsupio. Quando ho preso il diploma ho subito iniziato a lavorare, prima in una scuola materna, poi alle elementari: per badare al piccolo sono venuti dei conoscenti dal villaggio; non era una soluzione ideale, ma non c’erano alternative. Oltre alla scuola davo lezioni private e mi sono iscritta all’Università, laurea breve in Scienze Sociali: questi anni sono stati caratterizzati da un’intensità del fare, da un’attività mai interrotta, tra lavoro, studi, bambino. Nel 2007 ho vinto una borsa di studio per imparare la lingua italiana. Così sono venuta a Reggio Calabria per tre mesi a studiare la lingua, lasciando Nyima con mia mamma a Kathmandu – un piccolo assaggio di quel che ci aspettava nel futuro. L’Italia mi è piaciuta moltissimo, per la cultura, i paesaggi, la gentilezza delle persone”.

Al college

Nel 2009 Jumkit ottiene un visto lavorativo per l’Italia e decide di ripartire, con quello che guadagna in Italia può permettersi di pagare la retta del college più prestigioso di Kathmandu per suo figlio e garantirgli un futuro migliore. Ma è una scelta dura. “Avrei voluto portarlo con me, ma suo padre si è opposto per la paura di non poterlo più vedere: senza il permesso di entrambi genitori il passaporto non si può fare, così Nyima è rimasto in Nepal. L’abbiamo iscritto come residente in collegio e le nostre famiglie vanno a trovarlo quando possono, ma le distanze sono grandi e il viaggio costoso perché bisogna prendere l’aereo o l’elicottero. Loro guadagnano poco mentre la vita a Kathmandu è molto cara. Nyima all’inizio era molto arrabbiato per questa situazione, anche se la scuola gli piaceva e non era l’unico a risiedere nel college senza famiglia: sono molti i ragazzini che vengono a studiare in città da altri distretti. I primi mesi, davvero, sono stati una sofferenza terribile, il periodo più difficile della mia vita. Piangevo ogni sera per la nostalgia, perché mi mancava tanto, ogni giorno pensavo come sarebbe stato bello prendere un aereo, tornare a casa e non pensarci più, ma poi stringevo i denti e andavo avanti. Con il tempo ci si abitua alla nuova situazione, ma la nostalgia resta, intensa. Trovo la forza di andare avanti tenendo sempre presente che tutto questo lo faccio per lui, che ne vale la pena. Con Nyima il rapporto è complicato, non ho potuto prendermi cura di lui come avrei voluto e me lo rinfaccia, lui non vede le mie fatiche e non capisce la ragione dei miei sforzi. Durante l’anno cerco di chiamarlo il più spesso possibile, ma non è semplice, lui non ha un cellulare, bisogna passare attraverso la scuola e c’è la complicazione del fuso orario. Ci vediamo una volta l’anno per un mese, un mese e mezzo, durante l’estate e ogni volta dobbiamo ricucire il rapporto. All’inizio è felice di rivedermi, poi inevitabilmente prevale la conflittualità e mi rinfaccia la difficoltà della situazione. Ma quello tra una mamma e un figlio è un rapporto intenso, così ogni volta ci riavviciniamo, ma è già ora di ripartire!”.

Vita in Italia

“I primi due anni in Italia ho lavorato tantissimo. Nel 2011 mi sono iscritta all’Università, corso di laurea in Scienze dell’Educazione, continuando a lavorare come tata presso varie famiglie. Adoro l’infanzia in tutte le sue sfaccettature, mi piace studiarla come materia e viverla come lavoro. Il paradosso è che non l’ho vissuta pienamente come madre”.

Non ti pesa questo contrasto, occuparti dei figli degli altri quando non puoi crescere il tuo? “Questa domanda me la pongono in tanti, ma io sinceramente non ho mai vissuto la mia situazione in modo conflittuale. Non mi sono mai neanche posta il problema: adoro i bambini, mi piace stare con loro e vederli crescere è una cosa che mi fa stare bene. In questi sette anni ho visto crescere tanti piccoli e sono sempre riuscita a creare un rapporto intenso e bello con loro. I bimbi sono meravigliosi, mi incantano”.

Stili educativi

Com’è l’infanzia in Italia rispetto al Nepal? “Lavoro con famiglie italiane dal 2009 e ho notato che qui la vita della famiglia è tutta incentrata sui bambini. In Nepal i genitori fanno la loro vita e i bambini li seguono, così maturano molto prima. Iniziano a rendersi utili ai genitori già dai 5/6 anni e non hanno tante belle cose con cui divertirsi e giocare, almeno nei villaggi di montagna come il mio. In compenso hanno molta più libertà e più spazi, sono meno stressati, più calmi e rispettosi. Giocano con la natura e le pozzanghere. Qui invece, soprattutto nelle città, i bambini vivono in ambienti piccoli, al chiuso, hanno poco spazio per sfogarsi, sviluppano tante conoscenze e competenze, che è una cosa bellissima, ma lo pagano con ritmi di vita serrati e orari definiti. Come educatrice consiglio ai genitori di dare spazio libero ai bambini, per scoprire se stessi e il mondo, ma anche di passare tempo tutti insieme coinvolgendoli nelle decisioni familiari, condividendo la fatica e la felicità anziché lavorare tanto per offrire più opportunità materiali”.

E cosa vedi nel tuo futuro? “Per prima cosa voglio riunirmi con Nyima, ora ha 14 anni: a 16 anni può venire a studiare in Europa. E poi voglio continuare a studiare e lavorare con i bambini: in qualsiasi parte del mondo la vita mi porterà, i bambini saranno al centro”.

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