Paolo Nespoli, astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea, è stato tre volte nello spazio ed è papà di due bambini. Ci racconta la sua vita, tra missioni e famiglia
Paolo Nespoli è uno tra più famosi astronauti italiani. Tra il 2007 e il 2018, anno in cui è andato in pensione, ha vissuto nello spazio per 313 giorni, 2 ore e 36 minuti.
Oltre a essere un astronauta, Paolo Nespoli è un militare e un ingegnere. Ha scritto un libro ed è il personaggio di una storia di Topolino. E’ anche il protagonista di un documentario che racconta tutto ciò che avviene prima del lancio: i durissimi addestramenti, gli esperimenti, le simulazioni di situazioni catastrofiche e l’aspetto tecnologico delle missioni nello spazio.
Lo abbiamo incontrato come astronauta dell’Agenzia Spaziale Europea, ESA. Spontaneo, sincero, diretto, con una gran voglia di trasmettere la sua esperienza, ci ha raccontato cosa è significato per lui essere un papà e vivere nello spazio.
Papà vive nello Spazio
Il 15 dicembre 2010 sei partito per una missione nella ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Era la seconda volta e sei rimasto in orbita 157 giorni. A casa hai lasciato tua moglie e tua figlia Sofia ancora molto piccola. Cosa hai provato?
“Più che il momento della partenza, ricordo il ritorno dalla missione spaziale. Dopo sei mesi di lontananza, mia figlia Sofia, che allora aveva due anni, si era abituata a vedermi solo nel monitor. Si era convinta che vivessi dentro un televisore. Mi ha guardato con diffidenza, sembrava dirmi: ma come papà, tu hai le gambe? E cosa ci fai qui in prima persona?.”
Un paradosso. “Sì. Per mia figlia era normale che io fossi nello spazio, anormale che fossi tornato e fossi fisicamente lì, che occupassi uno spazio nella sua vita, come per esempio il letto di mamma che per tutti quei mesi era stato suo”.
Due figli e un lavoro molto, molto lontano
Paolo Nespoli vive a Houston, in Texas, con la moglie Alexandra e due figli, Sofia di 9 anni e Maximillian di 4. Gli impegni da astronauta lo hanno portato spesso lontano da casa.
“Non posso nascodere di essere stato un papà un po’ assente. Ma quando ho potuto esserci, mi sono sempre messo a disposizione. Cerco di far diventare prezioso il tempo che passiamo insieme. Max è ancora piccolo e quando torno a casa mi guarda con diffidenza, si aggrappa alla mamma e ci mette un po’ prima di venire in braccio a questo ‘straniero’. Con Sofia la situazione è diversa. Gioco con lei e faccio tutto quello che può fare un papà con i suoi figli. La porto in giro, faccio il taxi-driver, la sera la metto a letto e le racconto le favole o le faccio il massaggino”.
In videoconferenza dallo Spazio
Prima di vederlo partire per l’ultima missione (quando Paolo aveva 60 anni, un record) Sofia ha prestato al papà alcuni suoi giocattoli: un orsacchiotto, un dinosauro e un coniglietto, che lo hanno accompagnato per tutto il viaggio.
Ma la prima volta che è partito, la figlia aveva solo un anno e mezzo. “Con Sofia ho sempre avuto un attaccamento forte. E’ stato interessante vivere questo rapporto, sia durante la preparazione sia quando ero sulla ISS, la Stazione Spaziale Internazionale, dove gli astronauti e i cosmonauti hanno la possibilità di fare videoconferenze con la famiglia. Al primo collegamento eravamo tutti eccitati, io sulla ISS, mia moglie e mia figlia a casa, il sistema di videoconferenza sul tavolino. E boom! Appare questa immagine dallo spazio, loro due sedute sul divano. Iniziamo a parlare, ma Sofia dopo un paio di minuti si allontana e io sento in lontananza i suoi ‘patapum patapam’. Ho continuato a parlare con mia moglie finché Sofia è ritornata davanti al monitor, ho visto la sua testolina apparire di lato, qualcosa che si avvicina e poi l’immagine sparisce… Sofia si era avvicinata al monitor, si era appoggiata di spalle e stava cercando di venirmi in braccio. E proprio non riusciva a capire perché non fosse possibile”.
Da grande voglio fare l’astronauta
Come vivono in famiglia il tuo lavoro da astronauta? “Sofia in realtà non mi chiede molto, per lei è più o meno normale. Proprio un mese fa ero a Houston, l’ho presa a scuola e l’ho portata con me al centro della NASA. È stato interessante vederla curiosare in giro, farmi domande, guardare le foto, toccare le cose in giro, perché Sofia è un’esploratrice nata. Non so per quanto tempo resterò astronauta, così le ho fatto una foto che le servirà come ricordo quando sarà più grande”.
E se domani uno dei tuoi figli dicesse: voglio fare l’astronauta? “Non sono né favorevole né contrario. Guardo ai miei figli come i figli di qualsiasi altra persona. Quando ragazze e ragazzi mi chiedono ‘Voglio fare l’astronauta, cosa devo fare?’, rispondo che nella vita bisogna trovare qualcosa che ci piace. Bisogna capire quali sono le nostre passioni. Così spesso chiedo ai ragazzi: ‘Ma tu perché vuoi fare l’astronauta?’. E qualcuno mi risponde: ‘Perché voglio diventare ricco e famoso’. Magari hanno visto me o qualcun altro in televisione e per definizione pensano che questo significhi essere famoso, almeno tanto quanto quelli del Grande Fratello. Si sbagliano. Dico tutto questo per rispondere alla domanda. Se mia figlia decidesse di fare l’astronauta, non lo farà per imitare il padre e nemmeno perché penserà di diventare ricca e famosa. Lo farà perché le piacerà veramente”.
Insomma, non le consigli di seguire le tue orme? “Sofia ha molto del mio carattere. Forse un giorno deciderà di fare quel che ho fatto io. Ma ora, come papà, cerco di fare quello che tutti i genitori dovrebbero fare: lasciare che i figli decidano la loro strada. Cerco di dare ai miei bambini la possibilità di sperimentare tante situazioni diverse per riuscire a capire quali sono veramente i loro talenti. Le loro passioni”.
Un lutto durante la missione
Tua mamma è mancata quando eri nello spazio e tu e i tuoi colleghi cosmonauti avete fatto un minuto di toccante silenzio quando la ISS è passata sopra l’Italia. Hai voglia di raccontarlo? “La mia famiglia è sempre stata molto legata alla figura di nostra madre. Aveva 77 anni e stava bene quando sono partito. Le parlavo in videoconferenza dalla stazione. Poi a un certo punto ho capito che qualcosa non andava. Ho scoperto da mia sorella che non sarebbe sopravvissuta a lungo. Sono passati un paio di mesi prima che ci lasciasse, ma è stato difficile. Mi sono sentito incapacedi dare il mio contributo e di interagire con i miei parenti. Ho cercato di essere presente, per quanto la situazione me lo permettesse. Alla fine ho accettato la situazione. Siamo su questo mondo in maniera transitoria, ci sarà un momento in cui lo lasceremo. E’ stata molto toccante la piccola cerimonia che abbiamo fatto sulla ISS, seguita da tutti i centri di controllo. Un momento intenso, in cui tutti hanno partecipato al mio dolore. Poi la vita continua. E sono andato avanti”.
Un’adolescenza turbolenta
Che rapporto avevi con tua madre? “Il rapporto con i miei genitori è stato molto forte, specialmente con mia madre, che stava a casa gestiva quattro figli. Io ero il maggiore, sono stato quello che ha aiutato i miei genitori a capire cosa vuol dire essere un figlio. Non è stato facile. Mia madre era molto forte, ma lo ero anch’io. Ci sono stati degli scontri quando ero ragazzo, poi negli anni ci siamo riallineati. Alla fine, ho capito che molto del mio carattere e delle mie fattezze sono sue”.
Cosa hai imparato dall’essere genitore? “Quando è nata Sofia, mia moglie mi ha preso da parte più di una volta per spiegarmi che il modello di interazione che avevo con i bambini non era dei migliori. Seguivo l’approccio educativo di mia madre, che però era un po’ superato dai tempi. Adesso si usa il positive reinforcement, mentre mia madre faceva un negative reinforcement“.
Vale a dire? “Sostanzialmente questo. Su dieci cose potevo averne fatto nove benissimo e una male. E lei mi criticava per quell’unica cosa fatta male! Per fortuna mia moglie mi ha aiutato e ha corretto il mio modo di essere papà. Le sono grato perché mi ha fatto conoscere un modello educativo diverso da quello con cui ero cresciuto”.
Ma poi con tua mamma hai fatto pace? “Certo. Il comportamento dei miei genitori ha portato a un’adolescenza turbolenta. Ma, paradossalmente, proprio questo rapporto mi ha portato a essere quello che sono. Ai tempi non sono riuscito a iscrivermi all’università. Sono andato a fare il militare di leva e ci sono rimasto. Se fossi tornato a casa, le cose sarebbero andate diversamente”.
La famiglia sulla Terra
Torniamo alla tua esperienza nello spazio. Nel tuo libro: “Dall’alto i problemi sembrano più piccoli”, definisci le videoconferenze “coccole psicologiche”. Perché?
“Guarda, non è solo chi vive nello spazio ad aver bisogno di supporto emotivo. Anche la sua famiglia è in crisi, perché in fin dei conti si sente abbandonata sulla Terra. Le videoconferenze sono state volute dalla NASA dopo una serie di analisi psicologiche sulle problematiche da isolamento dell’astronauta. La possibilità di vedersi permette uno scambio continuo tra l’astronauta che sta nello spazio e i suoi cari. Entrambi hanno bisogno di sapere che stanno bene, che non ci sono problemi. O, se ci sono problemi, che si possono risolvere. È un livello di supporto multiplo, una mutual assurance”.
Paolo Nespoli e i social media
Quando eri sulla Stazione Spaziale non hai parlato solo alla famiglia o ai colleghi sulla Terra. Hai avuto anche tantissimi spettatori che ti hanno seguito da tutto il mondo. Com’era raccontare le tue emozioni giorno per giorno? “E’ da poco tempo che sulla stazione c’è la possibilità collegarsi a Internet e questo ovviamente permette di comunicare non solo con i centri di controllo e la famiglia, ma con chiunque. Ho pensato che sarebbe stato utile, anche per l’Agenzia Spaziale, utilizzare i social media per far passare un messaggio in favore della scienza, della tecnologia, della ricerca. Un messaggio socialmente importante. L’uso di Twitter dallo spazio, anche in modo anomalo, one-way, mi è servito da valvola di sfogo spaziale. Perché fare la cosa più bella del mondo e poterla comunicare aggiunge molto all’esperienza stessa”.
Tutti hanno ammirato le immagini che hai twittato dallo spazio. “Poter mandare foto dallo spazio mi è servito come supporto psicologico. I messaggi che mi arrivavano da Terra mi hanno fatto sentire che quello che stavo facendo non era importante solo per la scienza e la ricerca, ma andava a toccare le persone, anche da un punto di vista sensoriale. Un aspetto di contorno alla missione che l’ha resa ancora più interessante e significativa”.
Marinai in viaggio nell’Universo
Vedere la Terra da lassù. Che emozioni hai provato e cosa ti hanno lasciato? “Mi piace fare un’analogia. Sulla Terra siamo come una persona che vuole vedere un quadro al museo. Ci mettiamo lì, col naso appiccicato al quadro e quello che vediamo è solo un dettaglio. Dobbiamo allora tirarci indietro e vedere la figura d’insieme. Ecco, questo è quello che hai nello spazio. Stacchi il naso da terra e hai una visione d’insieme che è sorprendente, impressionante, perché ti fa vedere delle cose che prima non riuscivi a capire. Annulla le distanze”.
Sulla Terra non abbiamo la percezione di avere un impatto globale. “Pensiamo che tutto si risolva nel giro di qualche chilometro. Quando dividiamo socialmente il mondo in confini e pensiamo che l’Italia sia una cosa a parte, facciamo un errore grossolano, perché non vediamo veramente. Dovremmo vedere questo mondo come unico. Facciamo tante cose senza capire che alla fine siamo tutti legati. Siamo i marinai di questa nave che è la Terra in viaggio nell’Universo. E siamo dei marinai che hanno un impatto enorme su questa nave”.
Una volta hai detto che tutti dovremmo andare nello spazio. “Dovrebbero andarci anche i nostri politici, perché paradossalmente nello spazio si diventa terrestri migliori. Siamo legati ai ritmi della terra in un determinato luogo: il ciclo delle stagioni, il giorno e la notte. Sulla stazione spaziale tutto questo non esiste. Se hai un’ora di tempo, fai il giro del mondo. Vedi quattro stagioni, ambienti diversi che si susseguono, gli oceani, i cinque continenti, hai almeno un ciclo giorno-notte. E’ una trasformazione che all’inizio ti sconvolge. Se devi fare una foto alla Terra che passa sotto a otto chilometri al secondo, sveglia!, hai solo tre secondi per farla”.
Paura no, tensione sì
L’emozione più bella che hai provato nello spazio e, se c’è stata, la paura più grande?
“Guarda, sono stato sei mesi nello spazio e posso tranquillamente dire di non aver mai avuto paura. Non perché sono un incosciente, ma perché la paura è un sentimento che viene in situazioni che non conosci e che la tua mente definisce pericolose. Con tutto l’addestramento non mi sono mai trovato nello spazio in una situazione ignota”.
Tensione sì, invece. “C’era un esperimento che è costato cinque milioni di dollari, ci hanno lavorato in trecento persone per cinque anni. Arrivi tu che sei l’astronauta. Sei stanco, affamato, distratto, hai due ore di tempo, sei sotto pressione. In queste situazioni si crea tensione, viene l’ansia da performance, è richiesto di lavorare al 100%. Sono le condizioni ideali per creare un disastro (“Houston, ho fatto una cretinata!”)”.
Pensare da extraterrestre
Una cosa bella? “È davvero bello rendersi conto che gli errori e i problemi ci sono perché una persona nello spazio continua a pensare da terrestre. Il cervello è così impegnato a processare cose normali – mangiare, dormire, bere, andare in bagno – che non rimane spazio per altro. Se prima riuscivi ad affrontare una situazione complessa con tutto il cervello pronto a organizzare le informazioni, adesso hai solo un quarto di cervello disponibile. E uno dei momenti più belli è quando diventi extraterrestre, cosciente delle tue enormi capacità”.
Cioè? “Non devi neanche pensare a come muoverti o come fare le cose, non pensi più alla spinta che ti devi dare per non andare a sbattere contro il muro. Diventi l’uomo ragno, con capacità diverse da prima. Chiami Houston e sei tu a dare un aiuto a loro. E magari qualche giorno dopo scopri che hanno cambiato le procedure come tu gli hai suggerito. Quando sai che puoi fare un esperimento con risultati chiari e precisi. Ecco, queste sono tutte sensazioni molto belle. Bellissime”.