Il Rwanda sempre più plastic free. E in Italia?

da | 29 Dic, 2018 | Lifestyle, News

Se avete programmato un viaggio nell’Africa centrale, all’aeroporto non fatevi avvolgere le valigie con le pellicole di plastica protettiva. In Rwanda non le vogliono e le rispediranno al vostro paese di provenienza, sullo stesso aereo con cui siete arrivati.

Il Rwanda negli anni Novanta ha vissuto uno dei massacri etnici più atroci della seconda metà del Novecento per la rivalità fra Hutu e Tutsi, ma ora sta andando avanti e punta a essere il primo paese al mondo senza plastica “usa e getta”.

L’azione è parte di un ampio piano di sostenibilità ambientale portato avanti nel paese, che ha vinto, meritatamente, il premio ”Champion of the Earth” delle Nazioni Unite.

Il Rwanda, inoltre, punta a diminuire la vendita di materie prime, a trasformarsi in una economia terziaria entro il 2020 e a diventare una delle mete principali del turismo naturalistico in Africa. Se non avete ancora programmato questo viaggio, affrettatevi.

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La seconda chance – Lunga vita ai capi

Non stupisce sapere che l’industria più inquinante al mondo, dopo il petrolio, è quella della moda.

A livello globale la produzione di vestiti è raddoppiata dal 2000 al 2014 e rispetto a quindici anni fa, in Occidente, le persone comprano il 60% di vestiti in più e li tengono la metà del tempo. Ognuno di noi butta via 37 chili di vestiti all’anno, anche se un quarto potrebbe essere riciclato. Tre quarti però finiscono negli inceneritori o nelle discariche, anche per l’impossibilità di trattare i tessuti.

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Questo era il quadro fino a ieri, ma a dicembre è stato inaugurata a Hong Kong la prima fabbrica per riciclo intero dei tessuti. Utilizza un sistema di riciclo idrotermale frutto delle ricerche portate avanti dall’Hong Kong Research Institute of Textile in collaborazione con H&M Foundation.

La tecnologia permette di trasformare i vestiti vecchi in fibre e tessuti riutilizzabili al 100%.

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L’auspicio – Spariranno i compiti

In quinta elementare mio figlio ha deciso di scioperare e di non fare più i compiti. Non funzionava più niente per convincerlo, né il bastone né la carota. Il resto era prevedibile: note degli insegnanti, incontri col preside, ore di frustranti ripetizioni private.

Ciò che non era prevedibile è che, dopo mesi, ho iniziato a cogliere il suo punto di vista. “Perché dovrei fare tutta ‘sta roba?”. E mi chiedevo di conseguenza: “Perché mai dovremmo?” Non c’è una buona ragione, in realtà.

Le ricerche mostrano che gli studenti che svolgono i compiti non ottengono necessariamente risultati migliori rispetto a chi non li fa. Nemmeno alla scuola superiore. Una ricerca del 2012 dimostra che la quantità di ore spese per i compiti non influenza i voti.

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Forse un po’ di compiti ”fanno bene”. Per esempio, leggere un romanzo prima di una discussione in classe. Ma più di così è una perdita di tempo.

Forse i compiti preparano il ragazzo alla vita, se per preparazione intendiamo imparare a serrare i denti e fare una mole di mansioni senza senso, una competenza in cui oggigiorno siamo campioni.

Ma se non hanno da fare i compiti, cos’altro potranno fare i ragazzi? Non lo so. Fissare lo schermo del telefonino, giocare a Call of Duty, tirarsi i capelli, oppure niente. Avranno anche il diritto di staccare la spina, come lo hanno gli adulti.

Togliere i compiti assolverebbe i genitori dall’ingrato compito di fare i project manager dei figli e libererebbe gli insegnanti dal fardello di fare qualcosa solo perché si è fatto sempre così.

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