Si chiama neofobia ed è una tappa evolutiva che si collega alla “fase dei no” . Capire le cause dei disturbi alimentari nei più piccini
Fino a ieri abbiamo creduto che i nostri figli, impossibili a tavola, fossero sono piccoli viziati. Poi abbiamo sentito quella parola – neofobia – e abbiamo capito che dietro al rifiuto di provare cibi nuovi esiste una vera paura che ha anche basi biologiche.
La neofobia si manifesta nell’età in cui il bimbo comincia a muoversi autonomamente, a partire dai 18 mesi. L’istinto lo difende dall’ingestione di alimenti tossici o nocivi, facendogli provare riluttanza a mettere in bocca cose nuove.
Spesso la neofobia si manifesta nei primi ingressi a scuola e con l’incontro della refezione scolastico, anche laddove il cibo è fresco e di ottima qualità. Il risultato è bambini con una dieta monotematica che non manifestano curiosità per alcun tipo di cibo, dal dolce al salato, escludendo a priori moltissime forme di verdura, frutta e legumi.
La neofobia e la fase dei no
Il primo passo da fare è rendersi conto della gravità del problema, interrogandosi sulle reali capacità di farsi carico delle possibili soluzioni.
Non è facile gestire le difficoltà e non mandare messaggi contraddittori. Nessun genitore riesce a dire “non è un problema se non vuoi mangiare” quando in realtà ha nel cuore la paura che il proprio bimbo deperisca o cresca male.
In più, nella cultura italiana il rapporto tra il cibo e i figli risulta spesso faticoso da gestire e rischia di caricare i genitori dei sensi di colpa.
Se i bambini iniziano a rifiutare cibi nuovi, probabilmente sono entrati nella fase del no, una fase di età che presenta la criticità del “no” anche di fronte a situazioni, persone e oggetti sconosciuti. Non c’è da avere paura: rientra nella normalità.
Il rifiuto del cibo indica una difficoltà nascosta
La fase del no tende a diminuire con la crescita e l’accesso a nuove tappe di sviluppo. Alcune tappe tuttavia, come l’ingresso alla scuola materna, mettono il bambino di fronte a una serie di cambiamenti ancora più grandi.
I cambiamenti legati alla socialità, alle nuove regole e più in generale alla crescita, possono far sì che il bambino utilizzi il cibo per comunicare le sue difficoltà.
Il cibo diventa un modo per comunicare quello che non riesce a raccontare in altro modo.
Lo scenario familiare
Il rifiuto può durare a lungo e può diventare un problema quando i genitori, coinvolti emotivamente, attivano una serie di comportamenti e atteggiamenti che col tempo si consolidano, generando un copione familiare indesiderato.
In questo scenario, ogni nuovo tentativo che fallisce convince i genitori e i figli, sempre più, che cambiare è impossibile. Uno scenario tipico è proporre al bambino un cibo nuovo, sentirlo rifiutare, arrabbiarsi, piangere, cenare con il muso lungo.
Una strategia positiva cerca di comprendere la gestione emotiva del rifiuto e il significato che quest’ultimo assume per i figli. Per esempio, l’inappetenza, inizialmente spontanea e fisiologica può diventare un modus operandi con cui il bambino esercita un potere sui genitori oppure afferma la propria identità.
Quando è il caso di andare da un terapeuta
Le sfumature sono molto ampie ed è difficile fare generalizzazioni sul rifiuto del cibo da parte di un bambino senza conoscere la famiglia e le sue dinamiche.
Se l’atteggiamento neofobico però mette in crisi la serenità degli adulti o dei bambini, si può ricorrere a un terapeuta familiare.
Il terapeuta può aiutare a trovare una soluzione con la stessa tecnica che si usa giocando a Shanghai. Se si vuole prendere subito il bastoncino che ci interessa, si rischia di perdere. Se si ha la pazienza di “lavorarci un po’ attorno”, il bastoncino si libera da solo.