Scuole che non hanno mai visto un caso Covid vengono chiuse, in nome dell’incertezza del legame scuola-contagi. Eppure esistono studi che ci fanno pensare il contrario
Mentre la campagna di vaccinazione degli insegnanti prosegue, in Italia uno studente su 3 è già a casa e con il DPCM del 6 marzo saranno 6 milioni.
Eppure esistono sono scuole materne che non mai avuto un caso positivo (nonostante non ci sia distanziamento) e scuole primarie con 20 classi che da inizio anno ne hanno messe appena 2 o 3 in quarantena, isolando dall’inizio il primo caso e senza generare alcun focolaio.
Anche nella scuole superiori le classi sono dimezzate e gruppi di 7-8 ragazzi fanno lezione in aule che hanno una capienza di 25, e spesso c’è il plexiglass davanti alla cattedra. Allora perché chiudere le scuole? Su quali dati si basa questa scelta?
Le varianti colpiscono di più bambini e ragazzi?
Secondo il bollettino di sorveglianza epidemiologica del ISS, il 18,1% dei contagi interessano i cittadini sotto i 20 anni. Il dato precedente era 17,9 %: un aumento quindi, decisamente irrilevante.
Un dato così alto non significa necessariamente che il contagio riguardi realmente così tanto questa fascia di popolazione, ma dipende dal fatto che nelle scuole è in vigore un sistema di monitoraggio più tempestivo rispetto ad altri settori.
Resta il fatto che, secondo i dati del ISS l’incidenza attuale è comunque molto inferiore rispetto a quella rilevata durante la seconda ondata, ovvero da ottobre fino a dicembre.
In assenza di dati certi, anche all’interno dello stesso Comitato Tecnico Scientifico i pareri sul ruolo effettivo della scuola nella diffusione dei contagi sono discordanti.
Gli istituti scolastici vengono quindi chiusi sulla base dei dati relativi a contagi e ricoveri, ma non su studi che mettano in relazione l’incidenza che ha la scuola su di essi. Una scelta così importante dovrebbe essere ben calibrata: l’impatto psicologico sulle nuove generazioni è importante, così come la loro formazione delle stesse.
Spagna: nessun focolaio nelle scuole
Da settembre il governo Sanchez segue la linea “scuole aperte” puntando sull’importanza sociale della didattica in presenza. In caso di un positivo la classe va in quarantena, come in quasi tutti i paesi europei (ad eccezione di Belgio e Francia, dove si è tolleranti fino a 2-3 casi).
Anche in Spagna, come in Italia, a ottobre correva la voce “tempo 2 o 3 settimane e la chiuderanno”. Invece, anche durante il picco autunnale, il numero delle classi che avevano affrontato la quarantena era solo l’1,6% del totale .
Perché allora, le scuole non si sono trasformate in grandi focolai, considerando che per la scuola dell’infanzia e alle elementari non viene utilizzata neanche la mascherina? Prima di tutto, perché i bambini si contagiano meno.
La Asociación Española de Pediatría, ha dimostrato infatti che l’87% dei casi rilevati nelle scuole restavano isolati senza dare origine a un secondo caso.
Tale percentuale è stata confermata anche da uno studio di Kids Corona, che ha analizzato l’andamento del contagio su 2000 bambini: secondo i ricercatori infatti, pare che questi trasmettessero il virus 6 volte meno degli adulti.
Dopo il lockdown del 2020 e l’isolamento dei minori avvenuto la primavera scorsa, ora la Spagna non ritiene necessaria una misura così drastica.
Daniel López Acuña, esperto e professore della Escuela Andaluza de Salud Pública sottolinea che “le scuole non sono luoghi in cui si generano focolai, ma possono aiutare ad amplificare la trasmissione. Non bisogna dunque abbassare la guardia, e tenere le misure messe in atto fino ad ora”.
Forse in Italia bisognerebbe solo fare attenzione ai trasporti e incentivare i tamponi a tappeto nelle scuole – anche anti-igienici – , azione della quale si è parlato tanto ma che invece non è mai stata messa in pratica. Solo in alcuni regioni virtuose stanno partendo programmi di monitoraggio: la Toscana con il progetto Scuole Sicure e in Veneto, dove si sta avviando il progetto di monitoraggio Comune per Comune.