Hate speech, in italiano “incitamento all’odio”, è un modo di dire entrato nell’uso comune direttamente dagli Stati Uniti. Oltreoceano è addirittura definito dalla giurisprudenza: indica parole o discorsi che esprimono odio e intolleranza nei confronti di altre persone. l’Hate speech di pratica nella maggior parte dei casi online e gli insulti toccano l’orientamento sessuale, la razza o l’etnia, l’appartenenza religiosa, la disabilità o il genere.
Internet, chat e social network sono diventati una cassa di risonanza per questo tipo di comportamento. Anche se i comportamenti verbali violenti sono sempre esistiti, la rete non è neutrale e sta condizionando il fenomeno.
E’ un comportamento che si sta diffondendo e colpisce anche i più giovani, compresi adolescenti e preadolescenti. I post-millennials, pur se cresciuti con i telefonini e perfettamente capaci di destreggiarsi nella comunicazione online, cadono nella trappola degli insulti gratuiti, soprattutto nei confronti dei Vip.
Cosa cambia se l’odio è online
Perché l’hate speech online si differenzia da quello offline? L’Unesco, in un report datato 2015, individua quattro caratteristiche che distinguono l’odio “tradizionale” dall’odio in rete: la permanenza di quanto scritto, il suo ritorno imprevedibile in luoghi e forme differenti, l’anonimato e la transnazionalità.
Per dare un peso alle differenze online e offline proviamo a fare un esempio: prendiamo la differenza tra bullismo o cyberbullismo, cioè lo stesso fenomeno che si verifica nel primo caso all’interno di un’aula o di una scuola e nel secondo caso si è spostato sul web.
Una persona presa di mira nell’ambiente scolastico può, allontanandosi dalle persone e dal luogo, trovare un modo per alleggerirsi o addirittura liberarsi dei bulli e dalla sofferenza che questi atti procurano.
Ma se gli attacchi sono in rete, le cose dette e fatte dai bulli si dilatano in uno spazio infinito, sono ovunque, visibili a tutti e imputabili a nessuno. Internet smette di essere virtuale, la sua presenza diventa tristemente concreta.
Media education
Saper usare Internet e i social, postare foto, inviare messaggi istantanei, è condizione sufficiente per dire di conoscere i nuovi media e per insegnare ai più giovani a farne un uso corretto? Cristopher Cepernich, docente di Sociologia della comunicazione all’Università di Torino, parla di educazione ai media: “Nelle scuole servirebbero veri corsi di media education, per imparare la differenza basilare tra realtà e rappresentazione e le rispettive implicazioni dell’una sull’altra”. Spesso i più giovani non si rendono conto delle conseguenze che un messaggio violento o la condivisione e divulgazione di informazioni private può provocare. “Non si può negare – spiega il professore – che il web non presenti rischi rilevanti per soggetti ancora non educati all’uso. Se non sono i genitori, o un adultodi riferimento, a introdurre il bambino a questo strumento, lo farà qualcun altro. Perciò occorre trasferire competenze corrette ai bambini sin dai primi tempi per non alimentare ‘bolle’ di cattiva conoscenza”.
Il “netcitizen”, cioè il buon cittadino della rete
Famiglie e scuole sono il posto migliore in cui parlare di hate speech online, delle sue conseguenze e delle modalità per contrastarlo. Il comportamento del ‘buon cittadino di internet’, il netcitizen appunto, è contrario all’odio, prende posizione, crea una comunità online e si dedica alla creazione e alla diffusione di contro-contenuti sui principali temi presi di mira da chi alimenta l’hate speech.
Qualche esempio virtuoso? Visitatissimo su Facebook è Wipeout Homophobia, in risposta alle minacce e aggressioni ai gay; Parole O_Stili, progetto che vede impegnate l’Università Cattolica del Sacro Cuore, l’istituto Giuseppe Toniolo e il Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) nella promozione di una cultura della rete non ostile e di maggior consapevolezza dell’utilizzo degli strumenti digitali. Guardate il video di questa pagina. è una bella sfida, non solo per i più giovani.
Per saperne di più
Il libro “L’odio on line. Violenza verbale e ossessione in rete” di Giovanni Ziccardi, da cui si prende spunto per questo articolo, è una lettura indispensabile per chi vuole saperne di più.