L’affido è un’esperienza di genitorialità complessa e che nasce dal cuore: è la storia di Rita, mamma affidataria di più di 30 bambini
Rita ha 65 anni ed è mamma di Carlotta, oggi 27enne. Carlotta è figlia unica solo sulla carta: chiamano Rita “mamma” anche due ragazze adolescenti, Elsa e Vera, che vivono con lei da quando erano piccolissime, e un’altra bambina, Anna, di appena 20 mesi.
Il percorso di vita e di maternità di Rita va di pari passo a quello della storia dell’affido familiare in Italia.
Per affido si intende l’accoglienza di un bambino all’interno del proprio nucleo familiare per un arco di tempo più o meno lungo e che ha come obiettivo quello di sostenere la famiglia a superare le proprie difficoltà, periodo che si dovrebbe concludere con il ricongiungimento.
In Italia, nell’arco di decenni, la gestione e il supporto dato dai servizi nei confronti di queste famiglie sono cambiati, grazie anche al contributo di tante persone, come Rita, che hanno anticipato la normativa mettendo a disposizione braccia e cuore per aiutare le famiglie in difficoltà.
Rita non sarebbe la stessa senza la sua esperienza di affido, e i bambini che sono stati cullati tra le sue braccia non sarebbero gli stessi se non l’avessero incontrata. Ma partiamo dall’inizio.
Portare la mamma nel cuore
Alla fine degli anni Settanta, quando Rita si occupa per la prima volta di bambini allontanati dai genitori, “l’affido”, come lo intendiamo ora, non esisteva.
“Avevo poco più di vent’anni e frequentavo una scuola per educatori – racconta -. Erano i tempi pre-riforma, di lotta all’istituzionalizzazione e della Legge Basaglia: vivevo a Padova con un’amica disabile che aveva bisogno delle mie braccia per frequentare l’università. Per il tirocinio, conobbi un’associazione che voleva riproporre un ‘po’ di famiglia’ ai bambini di un orfanotrofio, inserendo piccoli gruppi di cinque o sei bambini in un appartamento con una donna che aveva il ruolo di mamma/educatrice.
Allora il ruolo dell’educatore non era ancora ufficialmente riconosciuto; tuttavia ero convinta fosse davvero quello che volevo fare.
Rita entra così in contatto con quelli che, ancora oggi, a distanza di quasi 40 anni, ricorda come i suoi ‘primi bambini’. La mamma era in una struttura di recupero e non poteva occuparsi di loro e il padre vittima di un grave incidente.
“Erano cinque fratelli, dai 3 ai 12 anni. Sono andata a vivere con loro, mi occupavo di tutto, dalla scuola ai pasti. ‘Facevo la mamma’ a tutti gli effetti Nella pratica sostituivo la loro mamma a tutti gli effetti e all’inizio non è stato facile essere accettata: ho dovuto guadagnarmi il loro affetto e la loro stima.
Abbiamo vissuto insieme per ben sei anni, durante i quali sono successe tante cose. Mi sono battuta per portarli via dal paesino in cui vivevano, in cui erano conosciuti e indicati come ‘i figli di’. Ci siamo trasferiti in città e lì le cose sono andate decisamente meglio.
Nel frattempo andavo a trovare la mamma e le portavo i figli in visita: desideravo che mantenessero saldo il legame con lei e ritenevo che anche lei avesse bisogno di un grande supporto.
‘Affido familiare’ per me significa anche questo: è un percorso diverso rispetto all’adozione. Siamo una famiglia in prestito.
Il bambino trascorre con noi un periodo limitato con lo scopo di riunirsi al più presto con la sua famiglia ma questo non può avvenire se non ci si occupa anche dei genitori. Occorre sostenerli, accompagnarli e aiutarli a trovare le risorse per superare le difficoltà che stanno attraversando.
Dopo sei anni insieme, i miei primi bambini sono tornati a vivere con la loro mamma. L’ho aiutata a trovare un lavoro, una casa e a occuparsi di nuovo dei figli.
I servizi allora non erano presenti: ci sono stati momenti molto difficili soprattutto quando i ragazzi volevano ritornare da me causando molta gelosia nella mamma. Oggi ho un’ottima relazione con lei, ci sentiamo regolarmente, le figlie sono mie ottime amiche e mi hanno inserita anche nella chat di famiglia: ancora oggi sono un pezzo importante della mia vita.
Da quell’esperienza ho capito una cosa importante che mi ha aiutato per affrontare tutte le successive: se tu, mamma affidataria, porti stretta nel tuo cuore la mamma del tuo bambino, senza giudizio e con grande gratitudine, avrai con lui la strada spianata. E’ come una magia: funziona!
Non è facile e neppure scontato, perché a volte ci troviamo di fronte a situazioni molto difficili. Spiego sempre che la mamma ha donato loro la vita e per questo devono esserle grati. E poi lei è un pezzo della loro identità, con cui dovranno fare i conti per tutta la vita. Seppellirla o non accettarla è solo dannoso”.
Mamma si diventa
Terminato il lungo periodo con i cinque fratelli, Rita diventa mamma di Carlotta, sua figlia biologica. Continua a lavorare presso i servizi sociali, in comunità e anche come babysitter.
“Dopo Carlotta ho sentito il desiderio di avere un secondo figlio, mi rattristava pensarla figlia unica ma mio marito non era della stessa opinione. Frequentavo famiglie numerose e Carlotta lamentava sempre di essere l’unica bambina senza fratelli o sorelle.
Un giorno è venuta a trovarmi una bambina di cui mi ero occupata, un paio di anni prima, quotidianamente, durante i suoi primi anni di vita perché la mamma lavorava a tempo pieno.
Vederla mi ha suscitato un sentimento strano: mi batteva il cuore, sentivo dei suoi confronti un legame fortissimo e diverso da quello che provavo per mia figlia. Il tempo che avevamo trascorso insieme, le passeggiate, le coccole, il momento della nanna e dei pasti, aveva lasciato un segno indelebile.
Così ho avuto la conferma di quel che da sempre pensavo: mamma ‘si diventa’ anche con i figli biologici, è un processo e non uno status. Non dovevo per forza generare un altro figlio”.
Oggi la casa di Rita è tappezzata di foto di tutti i ‘suoi bambini’: compleanni, vacanze, momenti di quotidianità.
“E così la mia famiglia si è allargata e la casa si è riempita ancor di più di vita, voci e risate, e per magia è sempre capitato che l’arrivo di un bambino coincidesse col compleanno di un altro. Insomma, arrivava proprio come un ‘dono’”.
I bambini si sono succeduti, uno dietro l’altro, a volte anche più di uno per volta. “Per un periodo ho partecipato al ‘progetto neonati’ che prevede l’affido temporaneo di bambini da 0 a 18 mesi. Occuparsi di un piccolino è molto faticoso, ma anche meraviglioso”.
La continuità affettiva
Con il passare degli anni, viene sempre di più messo in evidenza come l’affido familiare sia la risposta migliore al bisogno del bambino. Viene così regolamentato da leggi apposite.
Ora l’affido ha una durata di due anni, e al termine viene imposta una nuova valutazione evitando così di dimenticare i bambini. Può essere rinnovato per altri due anni, concluso con il rientro presso il nucleo di origine, oppure interrotto per farlo sfociare in un percorso adottivo, nel momento in cui viene valutata una incapacità genitoriale.
“Per me, quando un bambino in affido viene dato in adozione, si tratta quasi sempre di un fallimento dovuto a una mancanza di sostegno verso il nucleo di origine. Si deve intervenire a favore del benessere del bambino, ma anche in modo efficace a favore del genitore, in particolare quando questo vive ai margini della società”.
Tuttavia, anche se la famiglia affidataria condivide la finalità dell’affido stesso, vivere per anni con un bambino e poi lasciarlo andare non è sempre facile. Come gestire questa emozione?
“Quando i primi cinque bambini sono andati a vivere con la mamma, ho continuato a occuparmi di loro in modo indiretto. I più grandi mi venivano a cercare, ma la più piccola lo ha vissuto come un abbandono da parte mia. Sentivo che non era giusto, ma i servizi sociali non erano presenti per sostenere la mamma. A volte ho pianto di nascosto: non è facile gestire le emozioni per noi adulti, figuriamoci i bambini. I distacchi sono sempre difficili, ma oggi la legislazione è cambiata e riconosce il diritto alla continuità affettiva.
Rispetto ad allora, oggi i bambini vengono reinseriti gradualmente e mantengono i contatti anche dopo. Purtroppo la stessa gradualità non viene rispettata quando vengono tolti alla famiglia, e questo genera dei traumi con cui bisogna in seguito fare i conti. In passato, in particolare nel passaggio all’adozione, quando il bambino andava via non lo rivedevi più. Non posso non pensare a Gloria, che ha vissuto con noi i suoi primi 27 mesi”.
La foto di Gloria è nel salotto di Rita, e la ritrae sorridente con altri due bambini. “Dal giorno del rientro a casa della sua mamma biologica e del nuovo compagno, non l’abbiamo più vista. L’indicazione da parte dei servizi era quella di ‘tagliare’ il legame con noi per permettere un nuovo attaccamento.
Dopo alcuni mesi, una domenica mattina, me l’hanno riportata e lasciata davanti alla porta con una lettera. Ho contattato immediatamente i servizi che hanno prima optato un inserimento in comunità in attesa di adozione. Mi sono battuta contro questa decisione: eravamo stati la sua famiglia, di noi si fidava e avremmo potuto rassicurarla e accompagnarla verso la sua nuova vita. E così è stato.
Quando però sono arrivati in genitori adottivi, è andata via piangendo disperata. Avevo preparato una valigia con i suoi vestiti e una scatola con foto, giochi e oggetti, ma non hanno voluto prendere nulla. Forse era un tentativo da parte loro di cancellare il passato e regalarle una nuova vita.
Io sono invece convinta del fatto che la ferita profonda che il bambino si porta dietro non si possa cancellare da un giorno all’altro, ma che vada curata.
Ogni legame è una pagina della nostra storia. Non è detto che tornerai a rileggerla, ma non va strappata, nessuno ha il diritto di farlo.
Ho ancora la scatola di Gloria, ci sono le sue foto, il suo gioco preferito, quello che portava sempre con sé, i suoi ricordi. Chissà, forse un giorno verrà a riprenderli”.
Due figlie in più
Alla soglia dei 50 anni, Rita decide di prendere un periodo di pausa dall’esperienza di affido. Vorrebbe fare un viaggio con Carlotta e dedicare del tempo a loro due.
Un altro destino però la chiama: proprio il giorno in cui decide di comunicare la sua scelta, arriva un’emergenza per quattro sorelline di etnia rom, allontanate, risulterà poi per errore, dalla propria mamma.
“Era una situazione molto delicata, due di queste bimbe erano molto piccole (3 anni e 18 mesi) e c’era bisogno di una famiglia che le accogliesse superando ogni pregiudizio verso la loro comunità di appartenenza. Non ho saputo dire di no.
Ho aiutato i servizi a individuare altre famiglie per le sorelle. Con la mamma erano rimasti i figli maschi, che prima erano scappati con il papà, lei era incinta ma ha tenuto la gravidanza nascosta perché temeva che le portassero via il bambino.
E’ uno di quei casi in cui i minori vengono dati in affido ‘temporaneo’ ma in realtà non era previsto alcun progetto per sostenere la famiglia, affinché tornino ad occuparsene o si integrino nella società. Così l’affido si perpetua a tempo indeterminato senza che vengano risolti i problemi a monte”.
Oggi Elsa e Vera non sono più bambine. Hanno 18 e 17 anni, frequentano il liceo, chiamano Rita “mamma”, e alla maggiore età verranno adottate.
“Far parte della nostra famiglia non esclude quella di origine. Un giorno la sua mamma mi ringraziò dicendomi che davo un futuro alle sue figlie. Vediamo regolarmente i fratelli, sia quelli in affido sia quelli che sono ancora con lei. Per me, il fatto che mantengano la relazione con l’altra mamma è importante e le sprono a farlo.
Hanno il mio esempio, mi hanno sempre vista occuparmi di lei regolarmente: la spesa, il bucato, l’iscrizione del più piccolo all’asilo o accompagnarla alle visite perché oggi ha gravi problemi di salute.. L’ho anche portata a partecipare al concorso letterario Linguamadre. E’ stato emozionante vederla salire sul palco, spinta dalle figlie”.
E la piccola Anna?
“Per lei le cose non sono semplici, la mamma è in difficoltà ma il tribunale ha deciso che i nonni sono idonei e quindi saranno loro a prendersi cura di lei. Ma quando? La decisione è stata presa già da diversi mesi, ma ci sono problemi burocratici. ‘La bambina sta bene, dobbiamo occuparci delle urgenze’ mi ha detto il tribunale. Non è giusto, penso io. A questa età, 5 mesi sono un grande pezzo della vita, ogni giorno scopre e impara cose nuove e i nonni si stanno perdendo tutto questo”.
Oggi si discute sull’idoneità dei single o coppie omosessuali per il percorso dell’adozione, ma questo non riguarda l’affido.
“A coloro che vogliono dare la propria disponibilità per affido o adozione consiglio di non farsi influenzare o sentirsi esclusi a priori.
Abbiamo accolto per un periodo un bambino che poi è stato adottato da una famiglia di nazionalità rumena. Inizialmente tutti li scoraggiavano dicendo loro che non avrebbero mai dato un bimbo italiano a una famiglia straniera.
Loro ci hanno voluto credere, fino a che sono stati scelti proprio per il nostro bimbo. come famiglia idonea per quel bambino.
La loro esperienza è importante, e mostra un esempio da percorrere anche per single o coppie omosessuali.
È utile per smantellare quei pregiudizi comuni che spesso hanno gli stessi servizi sociali; perché sappiamo che sono le azioni delle persone, quelle fatte con il cuore, che anticipano le leggi e i cambiamenti sociali più profondi”.