Quale significato ha lo sport e perché è diventato indicatore di mascolinità? Storie di uomini che hanno scelto di far parte della vita dei loro figli
Devo confessare che non mi è mai piaciuto lo sport. Per gran parte della vita, ho pensato: “Dovrei davvero seguire di più lo sport”. Sembrava parte integrante della mia identità di uomo, soprattutto di maschio etero e cisgender, consapevole delle tipiche dinamiche maschili. Spesso mi sono sentito ignorante nei confronti di altri uomini, incapace di contribuire a intere conversazioni sulla difesa dei Leafs o sull’acquisto azzeccato nel calcio-mercato. Potrei restare in silenzio, dare un debole contributo o andarmene.
Ma con ciascuna di queste opzioni, sentivo di perdere un’occasione importante per legare con altri uomini, di stringere rapporti con amici o nuove conoscenze. Gli altri sembravano connettersi usando il linguaggio comune dello sport. Per chi poteva partecipare, la conversazione sembrava inclusiva. Ma io ho dovuto lottare per padroneggiare il dialetto.
Mi esercitavo, ho prestato abbastanza attenzione alle squadre locali, ai più grandi giochi e alle star, in modo da non inciampare sui bordi della conversazione. Ma il mio cuore non c’era e non riuscivo a capire il perché. Lo sport non doveva essere il linguaggio comune degli uomini? Ho deciso di iniziare a leggere ogni giorno le notizie sportive. Di guardare una partita dall’inizio alla fine. Anche di andare allo stadio, se necessario. Ma, onestamente, non me ne importava niente.
Da ragazzo odiavo soprattutto fare sport. Ero scoordinato, privo di talento e un anno più giovane della maggior parte dei miei compagni di classe, quindi quando facevo sport raramente provavo qualcosa, tranne frustrazione e umiliazione.
Due cose mi hanno aiutato a cambiare la mia opinione. La prima è stato diventare padre di tre figlie. Avere ragazze mi ha aiutato a uscire da una prospettiva profondamente di genere. Sono riuscito a vedere lo sport professionistico come il mondo ridicolmente dominato dagli uomini, quale, in effetti, è.
Ho cominciato a guardare non solo i giovani aggressivi sul campo, ma anche quelli che stanno nelle cabine di trasmissione, nelle retrovie, oppure sui banchi di scuola o nei bar.
Ci sono tante fan dello sport femminile, ovviamente, ma è un mondo gestito da uomini, in modo schiacciante. E gli sport femminili, in particolare gli sport di squadra, sono dentro una spirale negativa. Ricevono meno copertura perché attirano un pubblico più piccolo. Attirano un meno pubblico perché ricevono meno copertura.
Con il tempo, sono passato dal voler in qualche modo far parte di quel mondo ipermascolino – quel legame, quel vocabolario comune – all’essere felice di prendere le distanze da gran parte di esso.
I primi eventi sportivi che mi sono divertito a guardare, dopo molti anni, sono state le partite di calcio delle mie figlie. Ho guardato la partita solo per loro e per i loro compagni di squadra ed è stato divertente. Non so niente di calcio, altri genitori (per non parlare delle mie figlie) possono testimoniare, ma va bene. Non mi importa e non sembra interessare neanche alle mie figlie.
La seconda cosa che ha cambiato la mia attitudine verso lo sport è stata la crescente consapevolezza che, da adulto, potevo separare lo sport (e la mia sfuggente ricerca di quel linguaggio maschile condiviso) dalla forma fisica e dall’esercizio. Questa è stata una delle migliori scoperte della mia vita.
Ad aprile ho corso molto. A maggio ho tirato fuori la bici. Il kayak è entrato in acqua poco prima di giugno. Ed era tutto, per me, senza quello sforzo incerto per cercare di legare con altri uomini su cose che in realtà non mi interessavano.
Lo sport oggi significa qualcosa per me. Storie e ricordi mi collegano alle mie figlie e alle loro partite di calcio. Ma non sono più un indicatore di mascolinità.