L’olio di palma, adesso che non fa più paura

da | 17 Dic, 2018 | Tutto food

L’allarme suscitato dall’olio di palma si è mostrato un fuoco di paglia. L’industria alimentare lo ha cavalcato inventando nuovi slogan e nuovi prodotti. Senza risolvere i problemi

Biscotti, merendine, creme spalmabili e dolci industriali, si sa, non sono il massimo da dare ai bambini

Certo che l’allarme suscitato pochi anni fa dalla presenza dell’olio di palma si è mostrato, per l’ennesima volta, un fuoco di paglia che ha finito per essere cavalcato dalla grande industria alimentare, senza che i problemi siano stati risolti.

Anzi, molte aziende hanno colto l’occasione per rafforzare la loro immagine e costruire nuove esigenze differenziando gli stessi prodotti con nuove etichette e nuovi slogan.

Il risultato? Abbiamo più merendine sugli scaffali. Ci sembra di avere più scelta. Ma sono sempre gli stessi prodotti.   

Grassi cattivi ed etichette parlanti 

L’olio di palma è un grasso “cattivo”, accusato di rovinare il sistema cardiocircolatorio, distruggere le cellule che provocano insulina, provocare il diabete. C’è anche il sospetto che sia cancerogeno. Aggiungiamoci che è responsabile di una feroce deforestazione, soprattutto in Indonesia e Malesia. 

Nel 2014 è cambiata la normativa europea sulle etichette. Il nuovo regolamento ha imposto di specificare sulla confezione quali grassi sono utilizzati nelle preparazioni. Sono dunque scomparse le vaghe e ambigue diciture stile “grassi vegetali” o “oli vegetali”. E’ uscito allo scoperto l’olio di palma, da sempre utilizzato nell’industria alimentare. Ed è scattato l’allarme.

L’amore dell’industria

Nella maggior parte delle preparazioni dolci servono zucchero e grassi. Questi ultimi danno al prodotto tanta più struttura e consistenza quanto più sono saturi (cioè semisolidi) come il burro. Ma i grassi di origine animale costano molto e si conservano poco. La lunga catena della produzione industriale chiede altri grassi, più stabili.

Anni addietro si usavano le margarine industriali, ma uno stretto giro di vite dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha costretto l’industria ad abbandonarli. Erano i famosi grassi idrogenati, ormai universalmente ritenuti nocivi e quasi totalmente abbandonati.

Dovendo trovare un surrogato, ecco arrivare l’olio di palma, che ha una composizione molto simile al burro, con qualche vantaggio in più: è quasi insapore, non altera il gusto del prodotto finale, si conserva a lungo, è solido o semisolido a temperatura ambiente, non irrancidisce e, soprattutto, costa poco.

L’olio di palma fa davvero male?

La regola del buon senso è sempre la migliore. Troppi grassi non fanno bene alla salute. In una dieta equilibrata non devono superare il 10% delle calorie giornaliere, tuttavia in media in Europa se ne consuma una quantità superiore a quella raccomandata, circa il 15% delle calorie (fonte: European Food Information Council).

L’olio di palma è prodotto dai frutti o dai semi della pianta e prima della raffinazione è rossastro, odora di violetta, ha un sapore dolce e contiene molto betacarotene.

Raffinato perde le caratteristiche nutrizionali più interessanti (i carotenoidi, gli antiossidanti, le vitamine) ma non i grassi saturi.

Quello che si usa nelle preparazioni industriali è dunque un prodotto nutrizionalmente povero e potenzialmente dannoso esattamente come gli altri grassi saturi, come per esempio il burro o lo strutto.

Tolta la palma, si mette un altro grasso

L’Italia è la patria dell’olio d’oliva, che contiene il 13% di grassi saturi. L’olio di palma ne contiene il 49%.

L’olio di cocco, anch’esso molto diffuso nelle preparazioni industriali, arriva all’87%.

L’olio di palma può essere consumato nella dieta quotidiana, ma in misura limitata, perché fa ammalare le arterie. E non va demonizzato più degli altri grassi. Ce ne sono di peggiori.

Certo, molti grassi saturi, ma né l’Organizzazione Mondiale della Sanità, né l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, né il Ministero della Salute hanno preso posizioni ufficiali contro il suo utilizzo.

Studi sull’aumento di colesterolo causati da quest’olio si allineano a quelli sui principali acidi grassi. Ugualmente non c’è un riscontro scientifico che comprovi una correlazione diretta fra olio di palma e tumori.

Più controverso il discorso sul diabete: uno studio sperimentale promosso dalla Società Italiana di Diabetologia lancia un campanello di allarme, ma anche in questo caso la ricerca è allo stato sperimentale e non si può parlare di risultati definitivi.

La minaccia ambientale

Vero è che la coltivazione di palme da olio sta danneggiando il territorio del sud-est asiatico, con abbattimento delle foreste tropicali, impatto sulla biodiversità animale e vegetale, aumento di consumi di acqua, fertilizzanti e pesticidi. Altrettanto vero è che la coltivazione di palme ha un’alta produttività e per ottenere un uguale quantitativo di olio, per esempio da una piantagione di girasoli, servirebbe sette volte più terra e acqua.

E dunque?

Ben venga la trasparenza delle etichette: è indispensabile essere più consapevoli di quello che mangiamo.

“Riflettiamo sulla necessità di ridurre il consumo di prodotti da forno industriali pronti che diamo ai bambini spessissimo e soprattutto a merenda” spiega Alessandra Bosetti, dietista pediatrica.

“È molto comodo volere le merendine e contemporaneamente anche la qualità nutrizionale. Proviamo a tornare a proposte più genuine come pane e cioccolato, pane e formaggio, pane e pomodoro o marmellata”.

Le campagne di sensibilizzazione contro l’olio di palma non servono a nulla se ci ostiniamo a consumare e desiderare nuovi prodotti alimentari comodi e a lunga conservabilità, ma di scarso valore nutrizionale.

“L’olio di palma non fa male in assoluto. A far male è l’abuso, il consumo sregolato e abituale, la scelta di cibo di bassa qualità. Rivedere le nostre abitudini alimentari è il miglior modo per far bene al nostro corpo e all’ambiente”.

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